ANALISI

Da Tomasi di Lampedusa a Gramsci

Il film riprende piuttosto fedelmente il romanzo Il Gattopardo (1958) di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1896-1957), sottolineandone i passaggi più significativi, ma allontanandosi talvolta dal testo originale per dare una lettura del Risorgimento più politica, riassunta nella definizione gramsciana di «rivoluzione mancata» riferita a quel periodo storico. Il regista Luchino Visconti fu, del resto, a partire dagli anni Quaranta del XX secolo fino alla morte avvenuta nel 1976, un intellettuale vicino al Partito comunista, nonostante il rapporto travagliato che ebbe con la dirigenza di quel partito.



Il vecchio mondo e l’arrivo dei «piemontesi»

Come nel romanzo, la vicenda dei Salina ha come scenario l’impresa dei Mille, dalla quale scaturirono i cambiamenti politici e sociali che portarono alla decadenza di molte famiglie aristocratiche, di cui il principe Fabrizio è un tipico rappresentante. All’inizio del film la preghiera del Principe e della sua famiglia è interrotta dalle grida concitate della servitù che ha rinvenuto il corpo di un soldato nel giardino. Il maggiordomo consegna una missiva che parla di «terribili notizie» relative allo sbarco dei «piemontesi», e suggerisce un possibile riparo sulle navi inglesi ancorate nel porto. Il giornale filo-borbonico letto dal Principe descrive l’arrivo di Garibaldi a Marsala come «un atto di pirateria» compiuto da una «banda armata di circa 800 uomini», mentre i garibaldini sono spregiativamente definiti «briganti» che non hanno saputo affrontare le truppe borboniche; si precisa che la marcia dei Mille procede verso Castelvetrano, accompagnata ovunque da «rapine e devastazioni».



Nel segno della continuità

Quando fa la sua apparizione il personaggio di Tancredi Falconeri, il nipote prediletto del Principe, sappiamo che è in atto una ribellione contro «Franceschiello», come veniva chiamato il re Francesco II di Borbone. Il giovane propone un diverso punto di vista, annunciando allo zio di volersi unire ai ribelli che sostengono Garibaldi sulle vicine montagne. Tancredi dimostra di essere un opportunista ma anche di avere una visione più lucida sui cambiamenti in atto. Rimpiange i tempi del re Ferdinando II, teme l’avvento della «repubblica di don Peppino Mazzini», ma pronuncia una frase emblematica, che in seguito lo zio farà propria: «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi».



Il tramonto del sogno garibaldino

Allontanandosi dal romanzo, il film mostra i combattimenti tra garibaldini e forze borboniche a Palermo. Vi sono poi altri riferimenti alla conquista militare della Sicilia. Per esempio, Tancredi giunge con un generale in camicia rossa a palazzo Salina per mostrargli gli affreschi sui soffitti, sottolineando così la subalternità culturale del soldato rispetto all’aristocrazia isolana. Più avanti Tancredi indossa la divisa dell’esercito regio, rinnega il suo passato di ribelle, disprezza i garibaldini accusandoli di essere dei selvaggi capaci solo di sparare.

La parabola garibaldina si conclude definitivamente nella sequenza finale del ballo, quando arriva Pallavicini, il colonnello dell’esercito regio che fermò Garibaldi sull’Aspromonte per evitare che i Mille compromettessero l’alleanza con la Francia. Il militare, ospite illustre, ha un atteggiamento esuberante e tronfio; gli altri invitati pendono dalle sue labbra quando racconta del suo incontro con Garibaldi, citando «il famoso inginocchiamento» accanto all’eroe sconfitto, suscitando la reazione infastidita del Principe.



Ritorno all’ordine

Con la fine del sogno garibaldino la società ritorna al vecchio ordine. Al suono delle fucilate che si sentono nella notte, don Calogero Sedara dice a Tancredi che gli siede accanto: «Ora possiamo stare tranquilli». Lo stesso Principe, in un dialogo con padre Pirrone, il confessore gesuita, diceva di aver fatto importanti «scoperte politiche» sul fatto che nonostante l’arrivo di Garibaldi e dei suoi uomini, in realtà non sta succedendo niente, soltanto «un’inavvertibile sostituzione di ceti». Le considerazioni finali del Principe e di don Calogero confermano la lettura pessimistica del Risorgimento già presente nel romanzo, ancora una volta nell’ottica di un grande cambiamento mancato o tradito.