Capitolo VI
Giorgio Ficara, Don Rodrigo: diario di un seduttore?
In questo capitolo don Rodrigo compare per la prima volta sulla scena come protagonista in prima persona, e il critico Giorgio Ficara ne studia la personalità, il carattere, in rapporto anche con l’immagine del libertino e seduttore immorale di tanta letteratura del Settecento: la sua analisi si appoggia su giudizi di autorevoli intellettuali quali Francesco De Sanctis e Attilio Somigliano, e propone il confronto con il “don Giovanni” del filosofo Sören Kierkegaard.
Don Rodrigo è un libertino? Secondo De Sanctis è piuttosto un uomo che sta dietro un puntiglio, un’idea fissa, che vuole «spuntare l’impegno» di rapire Lucia, a tutti i costi. Dell’autentico libertino don Rodrigo non ha la concentrazione maniaca su un oggetto erotico, non ha la febbrile attività amatoria, né il culto del collezionismo. In altre parole, non ne ha la statura. E Manzoni, facendo il ritratto di don Rodrigo, è molto lontano, e immune, dalle suggestioni del romanzo libertino settecentesco (Sade, Laclos, Crébillon, o il Diderot dei Gioielli indiscreti, per fare qualche esempio) e dalle sue implicazioni psicologiche. Don Rodrigo vuole Lucia non tanto perché la desideri, quanto perché ha fatto una scommessa (tra l’altro, su questo evento puramente funzionale si sviluppa l’intera vicenda dei Promessi Sposi).
Anche nel colloquio con padre Cristoforo, don Rodrigo non esprime – come potrebbe fare – il punto di vista del libertino, immoralistico, ateo, provocatorio; si limita a tutelare il suo gioco, offende e si offende, schernisce e chiede ragione, atterrisce e si lamenta, è sfacciato e irreprensibile. Difende, sì, i privilegi e l’arroganza della sua classe, protegge il suo ozio e i suoi agi. Ma non va in fondo alla propria malvagità, non è così assolutamente negativo, crudele e ostinato, così assolutamente «cattivo» da non temere oscuramente l’infausta profezia del suo antagonista («Verrà un giorno…») e da non essere vile e atterrito di fronte alla morte, quando verrà (capitolo XXXIII). Don Rodrigo è un libertino di nome e un cattivo per metà; la sua figura, nonostante l’arroganza, ha un che di meschino, piccolo, angusto (che apparirà chiaro di fronte al grande «cattivo», l’innominato, al capitolo XX); e la sua mediocrità lo preserva dalle grandi passioni, come l’odio e l’amore. Dell’ideale, che secondo De Sanctis è l’autentico mondo artistico dei Promessi Sposi, don Rodrigo rappresenta la negazione (come padre Cristoforo, il Cardinale, Lucia l’incarnazione più pura, e don Abbondo la deformazione comica). Ma si tratta di una negazione molto teorica, ed in fondo molto debole dal punto di vista delle azioni e della fisionomia del personaggio:
Don Rodrigo è lo stesso ideale [di padre Cristoforo] preso a rovescio: natura violenta e inculta, guasta ancora più dalla falsa educazione e dalle male abitudini della sua posizione sociale. Non è già un tipo malvagio, un vero contro-ideale. Questo è certo il posto assegnatogli nel romanzo, questo il suo significato, ma solo come genere. La sua individualità è prodotta da un complesso di motivi storici. Egli è il nobilotto degenere di villaggio, l’antico feudatario che reputa tutto intorno, uomini e cose, come roba sua, e cerca far valere il suo diritto con la forza, circondato di bravi. Il mondo non è più lo stesso: ci è lo Stato e la legge; ci è un’ombra di borghesia incontro a lui, il podestà, il console, il notaio, l’avvocato; questo lo rende anche più cattivo, costringendolo a congiungere con la violenza l’intrigo e la corruzione. La sua vita non ha scopo; l’ozio rode in lui tutto ciò che di elevato v’avea posto natura e lo volge al male. Pesa su di lui l’atmosfera della sua classe. Ciò che lo spinge o lo frena è questa interrogazione: – Cosa diranno di me i miei pari? –. Onde nasce il puntiglio, il falso punto d’onore, che lo rende ostinato in un primo passo, e cangia la velleità in volontà, e lo tira di grado in grado sino al delitto. Le beffe del cugino e i ritratti de’ suoi antenati operano più in lui che la stessa sua libidine. Una scommessa è il piccolo principio, da cui nascono avvenimenti molto seri, dov’egli si trova imbarcato e inchiodato al di là di ogni sua intenzione. Casi simili hanno per lo più a movente la libidine o la passione; il motivo è qui un puntiglio, un voler «spuntare l’impegno», motivo comico, pure altamente tragico per l’importanza che ha nella coscienza di tutta una classe. Chi guarda ben addentro vedrà che don Rodrigo non è il peggiore de’ suoi pari. Ci è nel fondo del suo cuore un avanzo di buoni sentimenti, che lo rende pensoso innanzi alle parole di padre Cristoforo, e benché spesso tra banchetti e stravizi, pur non vi si mostra così cinico, come i suoi compagni di orgie. Egli è come tutti gli altri, pure il men tristo di tutti gli altri. Il suo peccato è di esser nato tra quei pregiudizi, e in quella atmosfera viziata: ciò che falsifica nella sua coscienza la nozione del bene e del male e gli dà un torto concetto dell’onore. Pure la fatalità della sua posizione morale non lo giustifica e non lo assolve. C’è un mondo superiore, le cui leggi non si violano impunemente. L’espiazione di don Rodrigo così piena di terrore e di compassione è la reintegrazione nella coscienza di quel mondo superiore offeso. (Francesco De Sanctis, Manzoni, pp. 84-85)
In questa prospettiva, Attilio Momigliano afferma addirittura che per don Rodrigo è possibile una redenzione e un’autentica comprensione del mondo dell’ideale:
Il contegno di don Rodrigo nel colloquio con fra Cristoforo è quello beffardo del prepotente che se ne fa scudo per non veder la propria ingiustizia; e fra Cristoforo se n’accorge: «Lei sente in cuor suo, che il passo ch’io fo ora qui, non è né vile né spregevole».
I dileggi di don Rodrigo sono inganni che egli fa alla sua stessa coscienza. Il motivo animatore del colloquio è la penetrazione nell’atteggiamento del prepotente, il quale ha un’oscura consapevolezza della propria malvagità, ma, poiché questa è diventata la sua vita, la difende come una fortezza assediata. La grande intuizione fondamentale è il fatto che don Rodrigo non permette la discussione sulla natura morale del suo atto; la grande intuizione è questa coscienza assopita, ma intera. Ci vuole la forza evangelica di fra Cristoforo straordinariamente accresciuta dalla provocazione, ci vuole la sua semplice e terribile minaccia, perché quella coscienza addormentata dia un segno visibile d’un remoto risveglio: questo momento è una data nella vita di don Rodrigo, ed è il centro della concezione.
Tutto quel che precede – la spedizione dei bravi, il racconto di Lucia, il fare spavaldo e freddo durante il banchetto – ha mostrato il cinismo di quello spirito: il colloquio mostra che in fondo a quello spirito qualcosa veglia ancora: la possibilità della redenzione spunta già da questo momento. Finito il colloquio, don Rodrigo è ancora quello di prima: naturalmente. Ma l’ora non è stata invano: la violenza persuasiva ed ispirata di fra Cristoforo ha spalancato per un istante le porte della vera vita, ha scoperto – dinanzi a don Rodrigo atterrito – un orizzonte simile a quello che l’amore sublime del Cardinale ha rivelato per un attimo a don Abbondio annichilito. Poi don Rodrigo continua la sua esistenza abituale, finché la peste gli fa ribalenar su dal profondo quel lampo di paura misteriosa. (Attilio Momigliano, Alessandro Manzoni, Principato, Milano 1941; pp. 229-30)
Come non è un libertino, così don Rodrigo non è un seduttore. Non prova neppure a sedurre Lucia, ma vuole rapirla. Nella seduzione c’è una tecnica e, in certo modo, una filosofia, sconosciute a don Rodrigo; la sua brutalità e la sua arroganza gli impediscono l’accesso all’universo della seduzione. Don Rodrigo vuole Lucia per un capriccio, non per il desiderio di sedurla e neppure per amore della seduzione in sé.
Ma com’è un vero seduttore (questo impossibile modello di don Rodrigo)? Il filosofo danese Sören Kierkegaard (1813-55) afferma, in un suo scritto del 1849, che il seduttore è colui che cerca la produzione del bello ad ogni costo, la cura, il perfezionamento, la crescita del bello nella donna amata; e che sa, d’altra parte, che la seduzione è per sua natura indefinitamente riproducibile: rifugge dall’unicità e dalla responsabilità – costitutive della vita etica – ed esige la molteplicità e la leggerezza – costitutive della vita estetica. Don Rodrigo non è, in questo senso, un teorico della vita estetica, ma solo un rozzo e mediocre gaudente, contrastato in un suo disegno di sopraffazione:
C’era una volta una giovane fanciulla di cui mi ero innamorato. Al teatro di Dresda, l’estate scorsa, vidi un’attrice che le simigliava a tal punto da farmi credere che fosse lei. Per questa ragione volli farne conoscenza, e la cosa mi riuscì; ma allora mi convinsi che la dissomiglianza era piuttosto grande. Oggi incontro per strada una dama che mi fa ricordare quell’attrice… Tale storia può durare indefinitamente […].
Il brutto di un fidanzamento resta sempre quanto in esso c’è di etico. L’etico è egualmente noioso nella scienza come nella vita… Che differenza: sotto il cielo dell’estetica tutto è leggero, bello, fugace, ma se interviene l’etica tutto diventa duro, spigoloso… Però un fidanzamento non ha, in un senso più stretto, realtà etica cosiccome un matrimonio,… esso ha validità soltanto ex consensu gentium… Questa ambiguità potrà essermi molto utile… L’etico che c’è nel fidanzamento sarà senza dubbio assai perché Cordelia1, a suo tempo, abbia l’impressione d’oltrepassare i confini dell’ordinario, ma questo etico non è poi di una tal severità che io debba temere una scossa più forte. Ho sempre avuto un certo rispetto per l’etico. Mai a una fanciulla ho fatto promessa di matrimonio, nemmeno per caso, e se può sembrare che la faccia ora, si tratta solo di una mossa fittizia… Certo, arrangerò la cosa in modo che sia lei stessa ad annullare l’impegno… Fare promesse spregia la mia cavalleresca fierezza! Io ho in spregio il giudice che con la promessa della libertà induca un malfattore alla confessione! Un tal giudice rinuncia alla sua forza e al suo talento. Bisogna inoltre tener conto della circostanza che nel mio agire pratico non desidero nulla che strettissimamente non sia libero dono… Usino i seduttori da strapazzo di mezzi del genere! E che cosa ne ricavano infine? Chi non sa circuire una fanciulla al punto che ella perda di vista tutto quanto si vuole non guardi, chi non sa introdursi in immagine nell’intimo di una fanciulla al punto che tutto scaturisca da lei nella misura in cui lo si vuole, questi è e rimane un maldestro, io non gli invidierò il suo godimento! Un uomo del genere è e rimane un maldestro, un seduttore, qualifica che non si può affatto riferire a me… io sono un esteta, un erotico che ha colto l’essenza e il carattere dell’amore, che crede nell’amore e lo conosce a fondo, e mi riservo soltanto la privata opinione che ogni storia d’amore dura al massimo un sei mesi, e che ogni rapporto è arrivato alla fine appena si abbia gustato l’estremo frutto. Tutto questo io so, ma so altresì che è il più alto godimento che si possa immaginare l’essere amati, amati più d’ogni altra cosa al mondo… Introdursi in immagine nell’intimo di una fanciulla è un’arte, uscirne fuori in immagine è un capolavoro. Ma questo è essenzialmente subordinato a quella. (Sören Kierkegaard, Enten-Eller, Il diario del seduttore, parte I, tomo III, a cura di A. Cortese, Adelphi, Milano 1978; pp. 177; 122-24)
1 Cordelia: la fanciulla che il Seduttore incontra per strada, e di cui si invaghisce.
Giorgio Ficara, in A. Manzoni, I Promessi Sposi, Torino, Petrini, 1986; pp. 114-117