Capitolo VIII
Giovanni Getto, La casa ideale
La casa come luogo di sicurezza e di intimità domestica, contrapposta alla strada come luogo di dispersione e violenza, è uno dei motivi ricorrenti nel romanzo. Si tratta in prima istanza della casa semplice della gente del popolo, ma poi si può estendere per analogia e contrasto anche ai palazzi dei potenti o ai conventi religiosi: è il rapporto esistente fra spazi “chiusi” e spazi “aperti”, in cui si esprime anche in chiave psicologica la visione del Manzoni. Giovanni Getto (1913-2002), che dalla sua cattedra universitaria è stato uno dei più raffinati studiosi dell’opera manzoniana, affronta il tema della casa misurandolo sugli avvenimenti del capitolo VIII, dove esso risalta in modo più esplicito anche perché colto nel momento traumatico della “casa violata”.
Il tema della casa corre, in maniera più o meno evidente e diretta, per tutto il cap. VIII, ma è un po’ alla base dell’intero romanzo. Si avverte fin dal cap. I la presenza del sentimento della casa come sede di quiete e di benessere, di sicurezza e di fiducia. La chiave, che là don Abbondio tiene in mano con anticipo e mette in fretta nella toppa per aprire e subito richiudere diligentemente, diventa un simbolo concreto di questo sentimento della casa. Essa apre un mondo di pace e chiude fuori minacce e pericoli. Proprio intorno alla chiave si svilupperà, nel cap. II, l’episodio dello scontro fra don Abbondio e Renzo. Ebbene, in questo vivace episodio del cap. II fa la sua prima apparizione il tema della casa violata, della intimità domestica fatta oggetto di violenza: un tema destinato a ritornare più di una volta: non soltanto in questo cap. VIII, ma anche più avanti, dall’episodio del vicario di provvisione a quello della casa di Renzo perquisita dal podestà, dal notaio e dai birri, da quello dei Lanzichenecchi a quello di don Rodrigo colpito dalla peste. Il Manzoni che ha evitato di presentarci l’immagine, tanto frequente nella tradizione narrativa, di corpi straziati da ferite, di persone su cui si eserciti la violenza degli uomini, ha trasferito la rappresentazione della violenza sulla casa, su questa realtà che è in certo modo parte integrante della persona, punto sensibile di verifica di una condizione privata, sociale e politica. Ed è forse proprio l’immagine della casa, nel senso più largo della parola, che dà concretezza artistica a quel tema della violenza che tanto rilievo assume nei Promessi sposi. Il tema della casa violata, nella scena della spedizione dei bravi, era rimasto come sottinteso. Ma c’era pur stata una muta eloquenza delle situazioni. La stessa riflessione del Manzoni sulla apparenza di oppressore e sulla realtà di oppresso di Renzo, «che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza», sembra avviare al confronto implicito fra le due case, sottoposte a violenza in quella notte, la casa di don Abbondio e la casa di Lucia; alla diversa gravità di quella invasione, che risulta dall’aspetto con cui alla fine le due case appaiono alla folla: «Altri corrono dalla parte dove c’era l’uscio: è chiuso, e non par che sia stato toccato. Guardano in su anche loro: non c’è una finestra aperta: non si sente uno zitto»; e invece: «Le tracce dell’invasione eran fresche e manifeste: l’uscio spalancato, la serratura sconficcata». La quiete ben custodita della casa di don Abbondio (ma giungerà per essa, come anche per la casa di don Rodrigo, la nemesi) fa risaltare la desolazione della povera casa di Lucia (per la quale, giunti al lieto fine del romanzo, si dovrà tuttavia riconoscere un celeste privilegio, perché vi «avevan fatto la guardia gli angioli»). Pur seguendo una diversa linea tematica, la spedizione nella casa di Lucia prospetta talune immagini che fanno presa sulla fantasia del lettore, come quel primo e secondo uscio sconficcato e soprattutto quel primo e secondo letto osservato con attenzione così accurata da evocare e ripetere quasi con l’occhio, il gesto della mano femminile che fu intenta a quella domestica occupazione: «il letto è fatto e spiantato, con la rimboccatura arrovesciata, e composta sul capezzale». Ma chi osserva quel letto è, dietro l’autore, il Griso: e in questo incontro, da una parte, di femminile pulizia e di domestico ordine e, dall’altra, di insidiosa manovra compiuta per un turpe proposito, si sprigiona un evidente significato. In questa immagine del letto spiato e accostato dai bravi si rispecchia il senso di una profanazione. E, come nel rifluire di un motivo sotterraneo, si ripensa a quel letto durante il racconto della fuga, in quel passaggio narrativo, di una rara segreta coerenza, dal tema del tremore verginale di Lucia al tema suggerito dall’interrogazione di Agnese sulla casa. Alla casa ancora si ritorna con la fantasia quando, dopo tanti usci aperti di soppiatto o con violenza, Renzo spinge «bel bello», la porta della chiesa del convento e fra Cristoforo, invitati i fuggiaschi ad entrare, «riaccosta la porta adagio adagio». Per la prima volta nel romanzo si entra in una chiesa. E in certo modo sarà questa l’unica volta (viste dal di fuori, idealmente o materialmente, sono in fin dei conti la chiesa di don Abbondio, alla quale Lucia pur volgerà fra poco il suo nostalgico pensiero, la chiesa del convento di porta Orientale, la chiesa del villaggio del sarto, la chiesa del lazzaretto). Ed è singolare che questo primo ed unico ingresso dei protagonisti in chiesa debba essere sottolineato dalla reazione di frate Fazio, che vi scorge un evidente sacrilegio («Allora il sagrestano non poté più reggere, e, chiamato il padre da una parte, gli andava sussurrando all’orecchio: ‘ma padre, padre! Di notte… in chiesa… con donne… chiudere… la regola… ma padre!’. E tentennava la testa»). Ed è significativo che fra Cristoforo si fermi su quella riflessione: «se fosse un masnadiero inseguito, fra Fazio non gli farebbe una difficoltà al mondo; e una povera innocente, che scappa dagli artigli del lupo…». Insomma ritorna da ogni parte il tema della casa violata, il ricordo delle due case, quella di Lucia e quella di don Abbondio. Le parole di frate Fazio risuonano con tono d’allarme, come risuonano i rintocchi di Ambrogio per respingere gli invasori della casa di don Abbondio. E il latino di fra Cristoforo, detto a frate Fazio «dimenticando che questo non intendeva il latino», fa pensare per contrasto a quel latino da don Abbondio detto a Renzo con piena avvertenza, per fargli un sopruso, e comunque per tutelare il proprio quieto vivere, senza preoccuparsi di infrangere il dolce idillio della casa dei due promessi sposi. A don Abbondio, chiuso nella egoistica quiete della sua canonica, una quiete così facilmente ricomposta dopo il tentativo dei due promessi, rinvia per opposizione, anche in altri particolari, la figura di fra Cristoforo. Don Abbondio e fra Cristoforo, che nel romanzo non si incontrano mai, per una sola volta si trovano avvicinati in uno stesso capitolo, l’uno al principio e l’altro alla fine, ad interpretare due opposti sistemi di vita. Già la loro comparsa all’aprirsi della porta, l’uno con la «faccia bruna e rugosa» segnata da due folte ciocche, due folti sopraccigli, due folti baffi,un folto pizzo, tutti canuti e rischiarati dal «lume scarso di una piccola lucerna» (si notino i due aggettivi: «scarso», «piccola») e l’altro con la «faccia pallida e la barba d’argento» illuminate dalla luna che entra per lo spiraglio, sembra alludere a due diversi mondi, un mondo angusto di tenace egoismo e un mondo solenne di universale carità. E l’allusione sembra estendersi a quel diverso ambiente in cui stanno: una casa confortevole e gelosamente custodita e la chiesa aperta nella notte per generosa iniziativa del padre, che con fatica riesce ad ottenere dal laico «una condiscendenza incomoda, pericolosa e irregolare»; una lucerna lasciata poi cadere dall’aggressivo don Abbondio e che morendo sul pavimento manda «una luce languida e saltellante» sopra Lucia, e «l’incerto chiarore della lampada che ardeva davanti all’altare»; una svagata e oziosa erudizione ed una precisa operazione da avaro creditore da parte di don Abbondio, e quella preghiera ardente e quell’impegno nel mettere al sicuro i poveri fuggiaschi attraverso tutta una previdente organizzazione di carità da parte di fra Cristoforo. Proprio fra Cristoforo tocca subito di nuovo il tema della casa e del paese che devono essere abbandonati: «… questo paese non è sicuro per voi. È il vostro; ci siete nati; non avete fatto male a nessuno; ma Dio vuol così […]. Presto, io spero, potrete ritornar sicuri a casa vostra […]. Là sarete abbastanza fuori d’ogni pericolo e, nello stesso tempo, non troppo lontane da casa vostra». E proprio a fra Cristoforo saranno consegnate le chiavi, con un gesto che in Agnese raggiunge una sua commovente verità: «restava da pensare alla custodia delle case. Il padre ne ricevette le chiavi, incaricandosi di consegnarle a quelli che Renzo e Agnese gl’indicarono. Quest’ultima, levandosi di tasca la sua, mise un gran sospiro, pensando che, in quel momento, la casa era aperta, che c’era stato il diavolo, e chi sa cosa gli rimaneva da custodire!». Le parole con cui fra Cristoforo annunzia la necessità del distacco dalla casa e dal paese sono ispirate e sorrette da un sentimento cristiano forte e gentile insieme: «Dio vi provvederà, per il vostro meglio; e io certo mi studierò di non mancare alla grazia che mi fa, scegliendomi per suo ministro, nel servizio di voi suoi poveri cari tribolati». Sono parole che nella loro semplicità riescono tra le più alte, tra le più umane, di quante sono pronunziate nel romanzo. E degna di queste parole è anche la preghiera che a qualcuno è sembrata fredda e convenzionale, e che invece, suggerita com’è da fra Cristoforo, assume un suo accento di imperiosità grave e rassegnata, di responsabilità dura e rasserenante, di semplicità umile ed eroica.
Giovanni Getto, “Il tema della casa e la struttura del cap. VIII dei «Promessi sposi»”, in Lettere Italiane, 1961; pp. 425-428