SEI Editrice
I Promessi Sposi

Capitolo X

Salvatore Battaglia, Gertrude

Il fascino ambiguo e inquietante del personaggio di Gertrude, la monaca di Monza, è uno dei valori narrativi principali del romanzo. Il filologo e critico Salvatore Battaglia (1904-1971), ne cerca le ragioni in un diverso atteggiamento di Manzoni nei confronti di questo personaggio, diverso da tutti gli altri: tra psicologia e sociologia, l’Autore non riesce a tenerne le distanze, perché non riesce a spiegarlo e a “controllarlo” né razionalmente né tantomeno emotivamente.
Per questo, secondo il critico, Gertrude è il personaggio più moderno dei Promessi Sposi.

L’episodio della Monaca di Monza è di sorprendente ampiezza e, quel che più conta, risulta perfettamente conchiuso, come un piccolo romanzo autonomo nel vasto corpo della narrazione. La sua storia, per quanto s’innesti organicamente nel tessuto del romanzo e ne confermi la genesi etico-sociale, ha nondimeno un trattamento psicologico assai distinto, che si potrebbe definire atipico. Anzitutto appare sostanzialmente mutato il rapporto consueto fra l’autore e il suo personaggio. Rispetto a tutti gli altri protagonisti il Manzoni si suole porre in una condizione dialettica. Di solito egli avverte di collaborare con la realtà, con il destino, con i segreti disegni della Provvidenza. Ciascuno dei suoi attori è gradualmente riguadagnato alla sfera della ragione dal fondo della biografia psicologica. È questo processo intrinseco della coscienza che consente alla scrittura manzoniana di accogliere una sensibilità passionale e romantica per catalizzarla nell’ordine razionale. All’incontro, nel dipanare il groviglio morale di Gertrude lo scrittore si sente interdetto e allarmato. Non dispone più della collaborazione provvidenziale, né questa volta lo soccorre la costante parabola del suo ingegno, che di solito gli fa acquistare alla responsabilità etica le zone inconsulte o ignare dell’esperienza. Con la Monaca di Monza il margine recondito della psicologia si allarga sempre di più, e tutte le volte che lo scrittore cerca di potarla sul piano dell’analisi e della consapevolezza, scopre le inesplicabili ombre del suo sottofondo patologico. In tutto il romanzo soltanto il personaggio di Gertrude ha questa dimensione d’indefinito scandaglio […].
La sua è una psicologia proibita, che ispira alla coscienza dello scrittore un atteggiamento di attrazione e insieme di ripulsa. La dimora morale in cui si aggira Gertrude gli appare come una immensa insidia, che viene a menomare la consueta confidenza dell’artista nel padroneggiare i propri personaggi. Il narratore non riesce a superare la perplessità dell’uomo sano che si arrischia di sondare le regioni malate della vita. Perché anche il male, non appena si anatomizza, comincia ad ottenere un margine di giustificazione, o per lo meno beneficia delle attenuanti che la vita e la società finiscono sempre per concedergli. L’analisi stessa porta al realismo, vale a dire ad una disposizione comprensiva verso la realtà e l’esperienza. Nei riguardi, ad esempio, di don Rodrigo il Manzoni è reciso, il suo giudizio è netto; ma rispetto a Gertrude egli diventa cauto, si direbbe circospetto. Sente di maneggiare sostanze venefiche. Ne deriva un’elaborazione stilistica d’impareggiabile delicatezza. Neanche la conversione dell’Innominato, che è il tratto più difficoltoso di tutto il romanzo, gli è costata tanta attenzione e scrupolo. Il tratteggio ch’egli fa della Monaca di Monza è una consapevolezza così tesa che pare debba spezzarsi ad ogni istante. Da un rigo all’altro il Manzoni guadagna alla luce dell’espressione un lembo di vita maledetta. Per questo la Monaca di Monza è il personaggio più moderno dei Promessi sposi. I protagonisti che la narrativa dell’Otto e Novecento è venuta allineando nella nostra letteratura, non hanno, tutti insieme, la profondità ermetica che possiede la creatura manzoniana, o per lo meno, nessuno di loro lascia quel segreto sgomento che comunica Gertrude.
Manzoni è riuscito a renderla patentissima pur lasciandola avvolta in una insondabile segretezza. Questa duplice qualità stilistica –  l’evidenza e il mistero – costituisce il pregio inimitabile della scrittura manzoniana. Ogni particolare che lo scrittore sollecita per chiarire la condizione morale di Gertrude, finisce col darle un più esteso alone d’ombra. Le pagine del «ritratto», relativamente poche, sono come una quintessenza, di cui continuano a rimanere ignoti gli elementi che la costituiscono, e che in seguito lo scrittore penserà di sciogliere e riannodare nella più vistosa prospettiva storica e sociale. Ma più che cause determinanti, tutte le condizioni oggettive che lo scrittore avrà cura di analizzare, si possono considerare concomitanti come altrettante concause. Per uno scrittore di educazione etica e religiosa come il Manzoni, che non poteva concepire il mondo degli uomini se non edificato sul principio della responsabilità, anche l’esistenza abietta di Gertrude trovava le ragioni più reali, e perciò più liricamente personali, all’interno della coscienza. E tuttavia è anche vero che per la prima volta nella nostra letteratura il senso del male del peccato risulta radicato nel sangue e nel costume come in un suolo di formazione millenaria, in cui la storia e la società sono chiamate ad una precisa corresponsabilità. In questa prospettiva il destino della Signora di Monza si pone a massimo esponente della struttura di tutto il romanzo […]. Il ritratto della Signora sembra uno studio dal vero. Anche la cura che lo scrittore vi ha dedicata, da una stesura all’altra, ne fa fede. Nessun altro ritratto letterario pareggia questo della Monaca di Monza. In tutti gli altri il Manzoni è preciso, meticoloso, cauto; ma qui si sente ch’egli richiede alla sua mano, cioè al suo linguaggio, una resa più impegnata. Egli sa di trovarsi dinanzi a una personalità complicata, sfuggente, ambigua, per la quale si richiede una misura diversa, un più rigoroso controllo. Egli deve rendere un forte, potente temperamento, minato da un’immensa debolezza; un orgoglio smisurato che si estenua nella costrizione; una volontà indomita che cede all’istinto, alla passione; una sete insaziata d’affetto che si dispera nell’aridità, nel rancore; una voglia di comunicare e la coscienza di essere condannata all’interdizione, alla solitudine, al deserto. E, soprattutto, il sentimento di sapersi al di fuori d’ogni solidarietà reale ed esclusa dalla sua stessa società, in una religione senza fede, sotto una veste mentita con un destino sbagliato, e soprattutto subito di prepotenza. Lo scrittore ha voluto rendere tutto questo in una sola pagina, ha cercato di anticipare in una concentrazione irriducibile quel che dirà di lei e della sua infanzia e della sua adolescenza nei capitoli seguenti, condensando tutta la sua sorte nei segni del volto, nella luce e nelle ombre degli occhi, nel pallore dell’incarnato, nella statura, nel gesto, nel contegno, negli abiti: prima che parli, prima che si riveli alla voce. Una bellezza sfiorita, una giovinezza disfatta, un orgoglio umiliato, una dignità malintesa, una ferocia antica e inveterata, un’eleganza ribelle: tutte cose che convivono in un conflitto perpetuo. Lo scrittore non si era mai trovato a dovere fronteggiare un personaggio che gli nasceva dalla fantasia caratterizzato da un’insolubile contraddizione. Il suo disegno è di una estrema difficoltà. È senza dubbio la prova maggiore ch’egli abbia richiesto alla sua scrittura. Due qualità morali egli doveva rendere alla pari: la forza e la debolezza; e bilanciare due sensibilità opposte il mistero e la dannazione. E così egli si riprometteva di suscitare nel lettore attrazione e diffidenza. Ogni particolare del «ritratto» concorre a formare la «composizione». Nel corso della pagina si effettua un dramma. C’è dentro un dinamismo psicologico infrenabile. Si noti l’alternarsi di moto e d’immobilità, di presenza e di assenza, di partecipazione e di distrazione. Non potremo più dimenticarla in questi tratti suggestivi, così precisi e insieme indefiniti, che obbligano a vedere e giudicare e nello stesso tempo lasciano un margine di ombra, di mistero d’incomprensione. Gli elementi descrittivi sono tutti in pieno spicco: la «contrazione dolorosa» della fronte, il «rapido movimento» delle sopracciglia, la «fissità» dello sguardo e la sua «investigazione superba», e subito la «fretta» di nascondersi, di appartarsi; e a volte la sensazione di chi cerchi «affetto, corrispondenza, pietà»; per un verso, quel cupo dolore di odio e di rancore, e di colpo un senso di neghittosità, quasi di stanchezza; e all’interno quel «travaglio d’un pensiero nascosto»: una «delicata grazia» e una «lenta estenuazione» e, soprattutto, i suoi occhi e i moti delle sue labbra: «subitanei, vivi, pieni d’espressione e di mistero». Questi due ultimi termini qualificano la Signora di Monza e la grande arte del Manzoni. E ancora: quel «certo abbandono del portamento» in contrasto con quelle «certe mosse repentine, irregolari e troppo risolute», quel tanto «di studiato o di negletto», e quel misto indiscriminabile di «dimenticanza» e di «disprezzo». Non ci sarà facile trovare un’altra pagina come questa in tutta la nostra narrativa moderna, capace cioè di compendiare un «ritratto» vivente come quello della Signora di Monza, che ci risulti patente pur nella sua luce ermetica, si direbbe sigillata.
Ci appare viva e vitalissima, eppure è come già segnata. È lì presente, avida di vita, ma è come se già avesse vissuto e scontato la propria esperienza. Ne ha accumulata già tanta dentro di sé, ma è come se non le appartenesse. La vita ha fatto storia ma come al di fuori di lei, suo malgrado. Nella sua giovinezza ci sono già i segni del disfacimento fisico e morale, della sazietà insoddisfatta,di un atavico smarrimento dell’essere.

Salvatore Battaglia, Mitografia del personaggio, Rizzoli, Milano 1968; pp. 285-290

© SEI - Società Editrice Internazionale p.a. - Torino