Il prezzo della conquista dell'America

La conquista spagnola del Messico da parte di Hernán Cortés. Dipinto di pittore anonimo.

Per i nativi americani, l’arrivo degli spagnoli fu un evento drammatico, che provocò un numero impressionante di morti. Per capire la portata di questa tragedia, occorre guardare i dati. Nel 1492, la popolazione dell’isola di Hispaniola si avvicinava ai 4 milioni. Nel 1508, gli abitanti dell’isola erano scesi a poco più di 93.000. Ugualmente sconvolgenti sono i numeri che riguardano l’area messicana, sede dell’impero Azteco e della civiltà Maya. Tra il 1519 e il 1605, la popolazione del Messico passò da 25 milioni a poco più di un milione. Nell’area abitata dagli Inca, il Perù, la popolazione indigena passò, invece, dagli 8-10 milioni del 1530 al milione e mezzo del 1590. Un’alta percentuale di questi morti è dovuta alla brutalità dei conquistatori. Il ruolo principale, in questo tragico processo di sterminio, va assegnato, tuttavia, alle malattie che gli spagnoli portarono con sé dall’Europa. Malattie apparentemente banali, come il morbillo, la varicella, l’influenza; esse erano, però, mortali per chi come gli indios non le aveva mai sperimentate, e dunque non possedeva le necessarie difese immunitarie.

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Scontri tra indigeni e spagnoli per le vie di Tenochtitlàn, particolare del Paravento della Conquista, seconda metà del XVII secolo. Olio su tela. Città del Messico, Museo Franz Mayer.

Lo scontro tra la civiltà azteca e i conquistatori spagnoli cominciò nel 1519, quando Hernan Cortés sbarcò sulle coste del Messico. In quel momento, il conquistatore spagnolo disponeva di seicento uomini, sedici cavalli, quattordici cannoni, trentadue balestre e qualche archibugio: una forza militare tutto sommato limitata. Eppure, in poco più di due anni, Cortés riuscì a sottomettere l’intero impero azteco, un territorio che occupava gran parte del Messico e che era difeso da centinaia di migliaia di guerrieri.

 

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L'incoronazione di Montezuma. Miniatura dal Codice Duran, XVI secolo. Madrid, Biblioteca National.




In un primo tempo, di fronte ai conquistadores e alle loro armi da fuoco, gli aztechi sembrarono paralizzati dalla paura: in molti casi, anzi, gli stranieri appena sbarcati apparvero loro come delle divinità invincibili. Un vantaggio imprevisto, che Cortés seppe sfruttare al meglio. Raggiunta in fretta la capitale dell’impero, Tenochtitlán, la conquistò senza difficoltà, imprigionando l’imperatore Montezuma. Solo allora gli Aztechi cominciarono a difendersi. Nel giugno 1520 passarono al contrattacco, costringendo gli spagnoli ad abbandonare la città. Non poterono, però, inseguirli, in quanto furono investiti da una micidiale epidemia di vaiolo, che fece vittime a migliaia, permettendo agli spagnoli di mettersi in salvo e di riorganizzarsi. Quando pose nuovamente l’assedio a Tenochtitlan, Cortés poteva disporre di un grande esercito: si era infatti alleato con i popoli messicani che gli aztechi avevano sottomesso.

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La conquista del Messico da parte di Cortés.

La più potente arma di Cortés era l’incolmabile superiorità militare degli spagnoli. Agli archibugi e ai cannoni di fabbricazione europea, gli aztechi poterono opporre soltanto armi di ossidiana. Le tecniche militari dei conquistadores, inoltre, sperimentate in quasi un secolo di guerre, erano molto più avanzate di quelle azteche. La formazione difensiva spagnola, in particolare – il quadrato difeso con le picche (specie di lance di oltre quattro metri di lunghezza) – risultava per gli aztechi assolutamente invincibile.

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La cattura di Atahualpa, imperatore Inca. Incisione del 1596 tratta da Americae, di Theodore de Bry.

I fattori che negli anni ’30 del ‘500 resero possibile la conquista dell’impero Inca, in Perù, sono abbastanza simili a quelli che favorirono la sottomissione degli aztechi. Più lunga e complessa fu, invece, la conquista di territori abitati dai Maya, corrispondenti alla penisola dello Yucatan e all’attuale Guatemala. La resistenza dei maya durò, infatti, oltre venticinque anni, dal 1526 al 1540. Anch’essi, però, dovettero infine soccombere.

 

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In un porto del Venezuela navi spagnole attorniano alcuni indigeni che pescano perle.

In ambiti ristretti, la selvaggia opera dei conquistadores suscitò delle vivaci proteste. Una prima discussione fu innescata nel 1511, quando i missionari domenicani iniziarono a denunciare le violenze compiute sull’isola di Hispaniola. «Siete tutti in peccato mortale», aveva gridato, dal pulpito, padre Anton de Montesinos: «in esso vivete e morite, per la crudeltà e tirannia che usate con queste genti innocenti. Ditemi con che diritto e con che giustizia tenete in sì crudele e orribile servitù questi indios. Non sono uomini questi? Non hanno anime razionali? Non siete obbligati ad amarli come voi stessi? Sappiate per certo che nello stato in cui siete non vi potete salvare più dei mori o dei turchi che […] non vogliono saperne della fede in Gesù Cristo».

 

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Bartolomé de las Casas difende gli indios contro i conquistadores. Affresco di Diego Rivera, 1929-1930. Città del Messico, Palacio National.

Il più strenuo e coerente difensore dei diritti degli indios fu il missionario domenicano Bartolomé de Las Casas (1484-1566). In America, dal suo punto di vista – qualunque giustificazione teorica venisse addotta per legittimare la conquista – si stava compiendo un atto di pura e semplice rapina.

 

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Un galeone spagnolo entra nel porto di Nombre de Dios, dal quale i minerali scavati in Perù salpavano per l’Europa.

Per l’economia del regno di Spagna, la conquista dell’America divenne un fatto significativo fin dalla metà del Cinquecento, quando in Messico e in Perù vennero scoperti enormi giacimenti di argento. La quantità di argento che, a partire da allora, si riversò su Madrid è impressionante. Pare, infatti, che fra il 1503 e il 1660 ne siano state portate in Spagna oltre 16 mila tonnellate. Forte di questo fiume di metallo prezioso, la Spagna divenne una potenza di prima grandezza. Le continue guerre in cui il regno si troverà coinvolto finiranno però, ugualmente, per dissanguare le casse dello Stato, portandolo più volte alla bancarotta.

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