La peste nel Seicento

Theodor Van Barburen (1570 ca-1623 ca), Mendicante, Roma, Galleria Borghese.

Il XVII secolo fu un’epoca di crisi e carestie, tanto che la fame divenne una presenza cronica e ricorrente. I momenti più difficili si ebbero nel 1661 e dopo il 1690, quando gli agenti atmosferici e l’abbassamento delle temperature medie portarono a raccolti insufficienti a nutrire la popolazione. Molti, per sopravvivere, furono costretti a nutrirsi di fieno, radici e carogne di animali morti. In numerose aree d’Europa, anzi, si registrarono casi di cannibalismo, mentre migliaia di persone morirono di fame. A peggiorare ulteriormente la situazione intervennero le epidemie di peste, che si ripeterono a più riprese tra il 1593 e il 1665, seminando milioni di morti.

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Luigi Scaramuccia, Federico Borromeo visita il Lazzaretto durante la peste del 1630, 1670. Olio su tela. Milano, Biblioteca Ambrosiana.

In generale, gli Europei del Seicento affrontarono le epidemie con un atteggiamento diverso rispetto a quello tenuto ai tempi della peste del Trecento, quando la malattia era stata interpretata come un castigo divino. Nella maggior parte dei casi, stavolta, la peste venne trattata per quello che era: una malattia, dalla quale occorreva proteggersi innanzitutto con la prevenzione e con il miglioramento delle condizioni igieniche. Ciò non toglie che, in alcune zone, tornarono a diffondersi credenze di origine superstiziosa, secondo le quali il morbo era il frutto di pratiche magiche compiute da persone malvagie.

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Nicolas Poussin, La peste di Azoth, 1630-1631 circa, olio su tela, 148x198 cm, Parigi, Museo del Louvre.

Negli Stati italiani, la prevenzione delle pestilenze venne affidata a speciali organismi, detti magistrature della Sanità. Il compito principale degli Ufficiali di Sanità era quello di tenersi informati sulle varie località che di volta in volta erano investite dalla peste, in modo da impedire che persone, navi e merci provenienti da quei luoghi varcassero i confini dei territori loro affidati. Quando paesi e città venivano colpiti dall’infezione, gli ufficiali di Sanità acquisivano, invece, la responsabilità di gestire l’emergenza: organizzare il funzionamento dei luoghi in cui venivano rinchiusi i malati (i lazzaretti); fornire mezzi di sostentamento a chi, avendo un familiare malato, veniva sigillato in casa; distruggere col fuoco gli oggetti appartenuti ai defunti appestati; seppellire i cadaveri in terra consacrata.

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Domenico Gargiulo, detto Mico Spadaro, La piazza Mercatello di Napoli durante la peste del 1656 (particolare), Napoli, Museo di San Martino.

Domenico Gargiulo, detto Mico Spadaro, La piazza Mercatello di Napoli durante la peste del 1656 (particolare), Napoli, Museo di San Martino
Il cambiamento di mentalità verificatosi nel Seicento è ben testimoniato da una delle misure prese in Toscana al fine di limitare il contagio. Gli ufficiali di toscani decisero, infatti, di vietare le processioni religiose: un scelta che a molti apparve irriverente, ma che serviva a evitare gli assembramenti di persone, durante i quali, come oggi appare ovvio, la peste tendeva a diffondersi più facilmente.

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David Teniers il Giovane, Il medico del villaggio, XVII secolo, Bruxelles, Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique.

Queste le indicazioni compilate nel 1630 da Cristoforo Ciuffini, uno degli ufficiali sanitari della città di Prato:
«Si è provato con l’esperienza che a spegnere il contagio prima fa bisogno ricorrere alla Maestà di Dio, alla intercessione della Beatissima Vergine e de’ Santi; di poi, osservare con ogni diligenza quanto appié [quanto segue]:  inzolfare e profumare le case o stanze dove son stati morti o malati; separare […] gl’infermi da’ sani; abbruciar subito […] le robe che hanno servito per uso al morto o al malato; serrar subito quelle case dove è stato infetti e tenerle chiuse almeno giorni 22, acciò chi vi è dentro […] non infetti gli altri».

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Domenico Fiasella, L’epidemia di peste a Genova. 1658 circa.

Nonostante l’atteggiamento razionale tenuto dagli ufficiali sanitari di molte città, in alcuni luoghi si verificarono episodi di superstizione collettiva, certamente dovuti alla disperazione provocata da quel flagello devastante. Il più noto di questi episodi è quello della caccia all’untore, verificatosi nella Milano del 1630 e descritto dal Manzoni nei Promessi Sposi. Proprio nella città lombarda, si diffuse la convinzione che il morbo fosse stato diffuso da malvagi personaggi – gli untori, appunto – che usavano ungere le maniglie di chiese e palazzi con una sostanza oleosa preparata per mezzo di pratiche magiche, che si riteneva causasse la peste in chiunque la toccasse.

 

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Esecuzione di Giangiacomo Mora e di Guglielmo Piazza. Sul luogo dove sorgeva la casa di Mora, poi abbattuta, sorse la "Colonna infame" qui raffigurata a lato, a perenne condanna degli untori giustiziati.

Alessandro Manzoni – nella Storia della colonna infame – ricostruisce il processo subito da due presunti untori, Gian Giacomo Mora e Guglielmo Piazza, che furono condannati a morte mediante tortura. Sul luogo in cui sorgeva la casa del Mora, abbattuta subito dopo il processo, sorse un monumento in forma di colonna, lì collocato a perenne condanna degli untori giustiziati. Quella colonna, però, divenne presto ben altro: col passare del tempo, si cominciò infatti a guardarla come un monumento all’odiosa ingiustizia compiuta contro due innocenti. La colonna - detta infame proprio per questa ragione – verrà abbattuta nel 1778.

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