La trincea

Devastazione nelle trincee italiane a Cividale del Friuli.

Generali e strateghi dei paesi coinvolti nella prima guerra mondiale avevano previsto che il conflitto si sarebbe concluso in fretta, mediante azioni offensive velocissime e di estrema violenza. Si ipotizzava, insomma, una guerra di movimento, basata sul rapido spostamento di uomini e cannoni, che dovevano essere concentrati laddove il nemico si fosse dimostrato meno pronto a resistere, per superare in fretta le sue linee difensive e per colpirlo subito dopo al cuore, sul suo territorio. Ogni previsione, però, si rivelò illusoria. La guerra di movimento immaginata alla vigilia dello scontro lasciò il posto al suo perfetto opposto: una lunghissima e logorante guerra di posizione, in cui gli eserciti, schierati l’uno contro l’altro, si contenderanno ogni palmo di terreno. Spesso le battaglie dureranno mesi, mentre la conquista di una bassa collina o di una piccola vallata richiederà il sacrificio di decine di migliaia di vite.

 

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Fanti inglesi all'assalto delle trincee nemiche.

Per tutta la durata del conflitto, gli eserciti dell’una e dell’altra parte si concentrarono all’interno di lunghissime trincee, poste, a breve distanza, le une di fronte alle altre: semplici fossi scavati nel terreno, profondi circa due metri e larghi altrettanto. In estate e in inverno, col sole e con la pioggia, le trincee fecero da casa a milioni di uomini, che vissero immersi nel fango e nella polvere, tormentati da pulci, topi e altri parassiti. Il momento peggiore, però, era quello dell’attacco, quando i soldati erano costretti a uscire dalla trincea e a lanciarsi con la baionetta contro il fuoco delle mitragliatrici nemiche. In pochi minuti, si moriva a migliaia e quasi sempre inutilmente, senza essere riusciti a raggiungere le vicine postazioni.

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Soldati inglesi escono dalla trincea per tentare un assalto, 1914.

Durante la grande guerra, la capacità difensiva di ogni esercito era infinitamente superiore alla sua capacità di attacco e di penetrazione. Grazie all’uso di reticolati e mitragliatrici, era relativamente facile resistere agli attacchi. Riuscire a conquistare la posizione del nemico, al contrario, era praticamente impossibile. «Gli uomini erano nelle loro postazioni – scrive un soldato tedesco descrivendo un combattimento del 1915 – e sparavano a più non posso sulle ondate di soldati che avanzavano allo scoperto. Poiché la fanteria nemica procedeva nell'intero raggio d'azione delle mitragliatrici, l’effetto fu devastante: li vedevamo cadere letteralmente a centinaia alla volta».

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Soldati tedeschi protetti dal parapetto di una trincea fanno fuoco con la mitragliatrice.

Per capire quanto straordinarie siano state le dimensioni del primo conflitto mondiale, basta pensare che l’esercito anglo-francese e quello tedesco si fronteggiarono lungo un fronte che, dal Mare del Nord, si prolungava fino al confine con la Svizzera: due interminabili file di trincee, parallele tra loro e separate da uno spazio vuoto di larghezza variabile tra i 200 e i mille metri: la cosiddetta “terra di nessuno”. Per quattro anni, quel fronte non subì alcun cambiamento significativo: ogni tentativo di conquistare le trincee avversarie si tradusse in un fallimento.

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Soldati tedeschi in trincea setacciano i loro abiti per privarli di pulci e pidocchi.

A dispetto della sostanziale impossibilità di conquistare le posizioni dell’avversario, i generali coinvolti nel conflitto non esitarono a sacrificare le vite di centinaia di migliaia di soldati, illudendosi, ogni volta, di poter vincere la resistenza del nemico. Il 1° luglio 1916, in un attacco tentato nella valle della Somme, l’esercito inglese perse 20 000 soldati e più di 1000 ufficiali, mentre i feriti gravi furono 25 000. Al termine di quella battaglia, durata quattro mesi, i morti anglo-francesi saranno più di 146 mila, mentre i caduti tedeschi saranno 164 mila. Nell’altro grande scontro del 1916, scatenato dai tedeschi contro le difese della città di Verdun, moriranno 650 mila uomini in 11 mesi. Le due battaglie, insieme, provocheranno circa 950 mila morti, senza produrre alcun risultato sul piano militare.

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Soldati italiani in trincea. La foto è del 1917.

Le carneficine a cui si assistette sul fronte occidentale si verificarono anche sul fronte che, a partire dal maggio 1915, divise l’Italia dall’Austria-Ungheria. Capo supremo dell’esercito italiano era il generale Luigi Cadorna, un uomo dal carattere difficile, ostinato e molto sicuro di sé. Al centro della sua impostazione stava il principio della “spallata”, secondo il quale il nemico doveva essere tenuto sotto pressione mediante attacchi continui, che ne avrebbero gradualmente logorato la capacità di difesa, fino a provocare lo sfondamento del fronte. A questo scopo, il grosso delle forze italiane venne schierato lungo il fiume Isonzo, al confine tra il Friuli e la Venezia Giulia. Gli attacchi tentati da Cadorna su quel fronte, però (le famose undici battaglie dell’Isonzo), porteranno a risultati molto modesti, al costo di centinaia di migliaia di vittime.

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Soldati feriti vengono soccorsi in una trincea adibita a posto di medicazione.

Spesso accadeva che i soldati uscissero dalle trincee nell’assoluta consapevolezza che la loro impresa era destinata a fallire, e che in essa avrebbero quasi certamente trovato la morte. Sottrarsi a questo destino, però, era praticamente impossibile: ogni gesto di ribellione, infatti, veniva punito severamente. Uno degli episodi più gravi, in questo senso, è l’ammutinamento della brigata Catanzaro (141° e 142° reggimento di fanteria), verificatosi tra il 15 e il 16 luglio 1917. La rivolta esplose di notte, provocando la morte di due ufficiali e il ferimento di altri due, ma venne subito sedata. Appena fu mattino, i 16 responsabili del fatto furono arrestati e fucilati. Per scoraggiare nuovi episodi di insubordinazione, inoltre, si procedette alla decimazione della 6° compagnia del 142° reggimento, con la fucilazione di altri 12 militari scelti a sorte.

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