Il cimitero di Halabja dove sono sepolte le vittime dell'attacco con i gas tossici del 16 marzo 1988, Iraq.
La lunga durata del conflitto combattuto tra Iran e Iraq tra il 1980 e il 1988 mise in seria difficoltà l’economia dei due paesi belligeranti: nel 1989, il debito estero dell’Iraq ammontava a 70 miliardi di dollari.
La minoranza curda, presente soprattutto nel Nord dell’Iraq, cercò di approfittare delle difficoltà del regime iraqeno, ma Saddam Hussein reagì in modo brutale e spietato, usando perfino le armi chimiche. Per far fronte alla difficile situazione economica, invece, il presidente iraqeno fece pressione sul Kuwait affinché, riducendo la produzione di petrolio, si ottenesse un aumento del prezzo del greggio. Ottenuto un rifiuto, Saddam Hussein ordinò l’invasione del piccolo emirato (2 agosto 1990) e ne proclamò solennemente l’annessione all’Iraq.
Il controllo sul petrolio kuwaitiano avrebbe dato a Saddam Hussein un potere immenso. Pertanto, alle Nazioni Unite si formò una vasta coalizione, comprendente circa cinquanta paesi, decisi a fermare l’espansionismo iraqeno in quella regione economicamente e strategicamente così importante. A guida della coalizione si posero gli Stati Uniti e i paesi dell’occidente; al loro fianco, tuttavia, si schierarono pure numerosi paesi musulmani, come l’Arabia Saudita, la Siria, la Turchia, l’Egitto, il Pakistan e il Marocco. Quanto all’Unione Sovietica, ormai entrata in fase di declino, mantenne una posizione quanto mai prudente e appartata, consapevole di non avere altra scelta.
Uso di gas sulla popolazione curda da parte di Saddam Hussein in Iraq.
Il 17 gennaio 1991 ebbe inizio il conflitto (che prese il nome di Guerra del Golfo) finalizzato ad obbligare l’Iraq ad abbandonare il piccolo ma ricchissimo stato del Kuwait. Nella sua prima fase, lo scontro fu caratterizzato da un numero elevatissimo di incursioni aeree (15 000 missioni in otto giorni) sulle città iraqene.
Saddam Hussein intraprese allora una sistematica devastazione del patrimonio petrolifero del Kuwait: mentre centinaia di pozzi venivano dati alle fiamme, il greggio accumulato nelle raffinerie veniva riversato nel Golfo Persico, provocando una gravissima catastrofe ecologica. Secondo alcune stime, il costo della guerra poteva essere calcolato, a quel punto, in 500 milioni di euro al giorno. Il 24 febbraio, iniziò l’offensiva terrestre dei 440 000 soldati (300 mila dei quali americani) della coalizione; le forze iraqene vennero completamente annientate mentre abbandonavano il Kuwait e si ritiravano precipitosamente verso nord. Da più parti, in occidente, si chiedeva che Saddam Hussein fosse processato come criminale di guerra; nonostante la sconfitta, però, il dittatore iraqeno restò al potere.
La paura dei governi occidentali, infatti, era che un collasso troppo rapido dell’Iraq (e, al limite, la sua disgregazione territoriale, provocata dallo scontro fra le diverse etnie e religioni presenti nel paese) provocasse una sorta di vuoto di potere, una cronica situazione di confusione politica, pericolosissimo in una regione che invece, a causa della sua importanza economica, per rispondere veramente agli interessi occidentali dovrebbe possedere, come caratteristica fondamentale, proprio la stabilità.
Marines appena entrati in una residenza di Saddam dopo il bombardamento aereo in Iraq.
Nel 2003, i consiglieri del presidente americano George W. Bush lo persuasero che quello di Saddam Hussein era lo stato che più di tutti fomentava e finanziava il terrorismo contro gli Stati Uniti. Eliminato Saddam, l’intera regione avrebbe accettato di collaborare con gli americani, garantendo soprattutto una regolare fornitura di petrolio alle potenze industrializzate, a prezzi ragionevoli. Per ottenere il consenso dell’opinione pubblica, il governo americano organizzò una forte campagna di informazione televisiva, finalizzata a dimostrare che Saddam Hussein possedeva (o era in procinto di fabbricare) numerose armi di distruzione di massa, non esclusi gli ordigni nucleari. In realtà, negli anni seguenti, è emerso con chiarezza sia che Saddam non aveva stretto legami con Bin Laden, sia che non possedeva alcuna delle terribili armi addotte dal governo americano a pretesto per l’invasione. A differenza di quanto era accaduto nel 1991, gli Stati Uniti non ottennero, nel 2003, il sostegno delle Nazioni Unite.
Pagina 3/10Statua di Saddam abbattuta da cittadini di Baghdad, Iraq.
L’attacco all’Iraq iniziò ufficialmente il 20 marzo 2003. La guerra vera e propria fu vinta con estrema rapidità e facilità: il 1 maggio infatti, il presidente americano dichiarò ufficialmente chiuse le operazioni militari.
I problemi seri, paradossalmente, iniziarono proprio in quel momento. Gli americani infatti, pur avendo vinto la guerra (nel senso tradizionale del termine), non controllavano affatto l’Iraq, che divenne così teatro di una guerriglia sanguinosa quanto infinita. Per quanto la cosa riuscisse incomprensibile ai neoconservatori, gli iracheni non si comportarono affatto come gli italiani, i tedeschi o i giapponesi che, nel 1945, si diedero immediatamente una costituzione democratica (nel caso di Tokio, di fatto, stesa dagli stessi americani). Al contrario, frange consistenti della società irachena iniziarono a combattere contro gli americani e i loro alleati, sia pure per ragioni diverse e spesso contrastanti. Il 12 novembre 2003 fu portato un sanguinoso attacco alla base dei soldati italiani di stanza a Nassirya, provocando 28 morti (19 italiani e 9 iracheni).Le truppe italiane erano state inviate in Iraq dal governo di centro-destra, presieduto da Silvio Berlusconi, convinto sostenitore della linea tenuta dal presidente americano Bush.
Il dittatore iracheno Saddam Hussein durante il processo.
Numerosi ufficiali e soldati che in precedenza avevano militato agli ordini di Saddam Hussein continuarono a combattere contro le truppe statunitensi anche dopo il crollo del regime. La motivazione di base che li spingeva alla lotta non era tanto la fedeltà al loro vecchio comandante: infatti, la guerriglia non diminuì per nulla, dopo la cattura di Saddam, avvenuta il 13 dicembre 2003. La ragione più profonda che animò questi combattenti si comprende solo tenendo presente che i vecchi sostenitori di Saddam erano sunniti, mentre la maggior parte della popolazione dell’Iraq è costituita da sciiti. Per tutta la durata del regime di Saddam (salito al potere nel 1972), la minoranza sunnita esercitò il potere, riuscì a godere di notevoli privilegi e trasse i principali vantaggi dalle rendite petrolifere. La caduta di Saddam, per loro, fu rovinosa, perché li privò del controllo dello stato, a tutto vantaggio degli sciiti. Nel nord del paese, la situazione era poi complicata ulteriormente dalla presenza dei curdi, una popolazione priva di un proprio stato nazionale e distribuita in Iran e in Turchia, oltre che in Iraq. Dopo la prima guerra del Golfo, i curdi si erano ribellati al regime di Saddam Hussein, ma il dittatore aveva represso in modo feroce la rivolta, massacrandone migliaia.
Pagina 5/10La moschea sciita al-Kazimain a Baghdad, Iraq.
I curdi furono l’unica componente della composita popolazione iraqena che accolse favorevolmente le truppe americane. In precedenza, anche gli sciiti erano stati oppressi da Saddam Hussein e trattati in modo molto violento; malgrado ciò, il loro atteggiamento verso gli americani fu all’atto pratico molto diverso da quello che si attendevano i neoconservatori. Una parte degli sciiti (quella diretta dalle autorità religiose più rispettate e venerate dalla popolazione) assunse una posizione di neutralità e di attesa; una minoranza violenta e rivoluzionaria, guidata da alcuni giovani leader desiderosi di imitare il vicino modello iraniano, mantenne invece un atteggiamento bellicoso, costringendo gli americani alla repressione armata. Il dato paradossale è che anche la componente sciita più benevola verso gli invasori occidentali non mostrò nessuna intenzione di dar vita ad una democrazia, ma, semmai, ad una repubblica islamica, che ponesse la legge coranica a base del proprio sistema normativo.
Pagina 6/10Fermo di un musulmano sciita in Iraq.
Nel maggio 2004 è esploso un clamoroso scandalo, a causa delle torture inflitte ad alcuni prigionieri iracheni, da un gruppo di soldati e soldatesse americane, nel carcere di Abu Ghrayb. Questa vicenda ha inferto un duro colpo al concetto centrale della concezione politica dei neoconservatori americani, in quanto ha infangato e invalidato le asserite pretese di superiorità morale degli Stati Uniti, rispetto ai cosiddetti stati canaglia, accusati di sostenere il terrorismo.
Un’ombra pesante sull’immagine degli USA era già emersa a seguito della guerra in Afghanistan, quando numerosi guerriglieri talebani catturati furono condotti nella base di Guantanamo e trattenuti in regime di prigionia, in una condizione di fatto simile a quella di un campo di concentramento. Da più parti, all’indomani dell’11 settembre, era stata avanzata la paura che la guerra al terrorismo mettesse in funzione una pericolosa spirale di limitazione delle libertà, in nome della sicurezza collettiva. Anche se, tutto sommato, i diritti dei cittadini americani ed europei non sono stati seriamente limitati, il disprezzo dell’amministrazione Bush nei confronti dell’ONU e la sua tolleranza nei confronti di metodi brutali a Guantanamo e in Iraq, nei confronti dei presunti terroristi, ha fatto sì che il prestigio americano sia stato seriamente compromesso, a livello internazionale.
Attacco da parte di un attentatore suicida a i membri di una milizia sunnita filo-governativa in coda per la paga nella parte ovest di Baghdad. Luglio 2010
L’elezione di Barack Obama a presidente degli Stati Uniti ha aperto una nuova fase della politica estera americana meno arrogante e unilaterale di quella tenuta da Bush. Obama è riuscito ad ottenere un importante successo con la morte di Bin Laden: il 2 maggio 2011, infatti, un commando militare americano ha sorpreso il leader integralista nel suo rifugio pakistano e l’ha ucciso, dopo un breve conflitto a fuoco. Nello stesso anno, il presidente americano ha posto fine alla presenza militare in Iraq, ritirando praticamente tutte le truppe statunitensi. Il bilancio dell’invasione dell’Iraq può essere considerato fallimentare da tutti i punti di vista. I militari americani morti tra il 2003 e il 2011 sono circa 4500, a fronte di ben 100 000 civili iraqeni caduti a seguito degli scontri. Il governo del Paese è tutt’altro che stabile e, occasionalmente, gli attentati continuano a insanguinare Baghad e altre città. In Afghanistan, invece, la guerra continua e più in generale si può dire che, nella delicata regione del Medio Oriente, le prospettive di pace sono ancora decisamente remote.
Pagina 8/10Sciiti in preghiera a Saddam City
La situazione politica del Medio Oriente si è complicata ulteriormente da quando, nel 2005, in Iran la carica di presidente della repubblica è stata assunta da Mahamoud Ahmadinejad, un estremista deciso a portare avanti fino in fondo le idee dell’ayatollah Khomeini. L’Iran è in preda a una seria crisi economica. A causa del suo radicalismo politico, i paesi occidentali non si fidano a investire grandi somme di denaro. Le attrezzature e gli impianti per l’estrazione del petrolio, quindi, sono ormai vecchie e superate: mentre nel 1974 venivano estratti sei milioni di barili al giorno, nel 2005 la produzione non superava i 4,5 milioni di barili giornalieri. La popolazione è formata in prevalenza da giovani (il 70% degli iraniani non raggiunge i trent’anni di età) e in rapido incremento demografico. L’inflazione, di conseguenza, è altissima: nel 2006, sarà sicuramente superiore al 50%. Alle elezioni del 2005 (riservate, comunque, solo a partiti rigorosamente islamici) Ahmadinejad ha sconfitto i moderati e i riformisti, promettendo radicali riforme sociali a favore dei ceti più poveri, che l’hanno votato in massa. Per ora, tuttavia, il radicalismo di Ahmadinejad si è indirizzato solo contro l’occidente. In tono di sfida, più volte Ahmadinejad ha ribadito che l’Iran procederà alla costruzione di centrali atomiche e di armi nucleari. Inoltre, ha proclamato che Israele dovrebbe scomparire dalla carta geografica del Medio Oriente e che la Shoah è un’invenzione, un mito storico del tutto falso. Per il momento, il bilancio dell’attacco all’Iraq è dunque fallimentare sotto tutti i punti di vista: tra il marzo 2003 e il marzo 2005, sono stati contati 5000 militari iracheni morti; 1952 soldati caduti (1766 americani, 92 britannici, 26 italiani; gli altri appartengono ad altri paesi che hanno collaborato con gli USA); 24 865 civili iracheni morti. Di questi ultimi, il 37% è stato ucciso da soldati occidentali, il 4,3% da attentati compiuti con auto imbottite di esplosivo, il 4% da terroristi suicidi.
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La guerra in Iraq