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Testi critici
 

Michele Barbi

POESIA E ALLEGORIA NEL CANTO I


[…] quando, a proposito del I canto, si parla comunemente di allegoria fondamentale del poema (e meglio sarebbe chiamarla, semmai, figurazione iniziale), si tira a significazione allegorica troppo di quella che è semplicemente espressione parabolica o tropologica, e che appartiene, come tale, al mero senso letterale.

Così, ad esempio, ciò che Dante dice della selva in cui si trovò smarrito è una semplice maniera di dire figurata per significare il proprio traviamento morale; e quando dalla figura noi passiamo a vedere, nell’immagine della selva, siffatto traviamento, non usciamo affatto dall’ambito del senso letterale per entrare in quello allegorico, dacché […] il senso letterale non è la figura in sé, ma quel che è in essa figurato, vale a dire quello che essa significa. E ciò è tanto vero che, per richiamare lo stesso fatto del traviamento, il poeta altrove ha potuto servirsi, senza incongruenza, di altre figure, quando proprio non lo abbia espresso con la nudità di quello che i retori chiamano linguaggio proprio […].

Anche altre più complesse figurazioni, le quali pur si collegano in un modo o nell’altro al senso allegorico del poema, appartengono, in quanto si prendano a sé, al linguaggio parabolico, che Dante ha familiare in conformità col gusto del tempo e per la consuetudine con le Sacre Scritture e con le opere ascetiche; e rientrano quindi nel senso letterale. Valga ad esempio la figurazione delle tre fiere che impediscono l’andare su al «bel monte». Si tratta, certo, di impedimenti intrinseci, che si oppongono alla liberazione dell’anima dallo stato di smarrimento morale in cui si trova: e ben videro i primi interpreti figurato in esse il peccato; ch’è, in fondo, il distacco dell’anima dal Bene sommo a cagione della «concupiscentia carnis», della «concupiscentia oculorum», e della «superbia vitae», nelle quali si riassume tutto ciò che nel mondo ostacola all’uomo «la strada di Dio». […] Dal fatto che il poeta abbia ornato di simboli l’opera sua non ne consegue che essi sieno parti costitutive dell’allegoria fondamentale connaturata, per così dire, alla stessa inspirazione del poema: possono, al più, alcuni apparirci come particolare illustrazione.

Quale sia il vero senso allegorico nascosto sotto la lettera Dante stesso ce lo insegna […] nell’ultimo capitolo della Monarchia. Il poeta ha inteso ritrarre lo stato di smarrimento e di traviamento della società cristiana del suo tempo (selva) e mostrarne la causa nella mancanza delle guide che la Provvidenza assegnò al genere umano quando lo volle redento in Cristo. Ha inteso proclamare la necessità del ritorno delle sue guide al proprio distinto ufficio e che la società, sotto di esse e per opera loro distinta e concorde, riprenda il retto cammino che conduce alla felicità terrena e alla beatitudine celeste (raffigurate nel Paradiso terrestre e nel Paradiso celeste), secondo i due fini posti da Dio alla vita umana. Ha inteso annunziare che il ripristino delle due distinte guide nella pienezza, ciascuna, dei propri e distinti uffici è prossima: per opera d’un uomo a ciò straordinariamente destinato dalla Provvidenza (raffigurato nel Veltro e nel Dux), il quale caccerà via dal mondo la cupidigia (la lupa), corruttrice della vita familiare e civile e politica d’ogni ceto sociale, e corruttrice della stessa Chiesa di Cristo, e anzi soprattutto di essa, ne’ suoi organi e ne’ suoi capi […].

Definita e considerata così, l’allegoria fa corpo con la poesia; e viene a costituire, per così dire, l’anima e il succo del poema.

Con che non si dice, e non si vuole intendere che Dante, nel corso del suo lavoro, fosse ossessionato dal pensiero di porla presente ed operante in ogni singolo episodio o discorso né che, conseguentemente, al lettore incomba l’obbligo di andarla appostando e scovando per ogni dove. E anche se qualche complessa figurazione simbolica c’invita a ricercare e a penetrare oltre la lettera, non dobbiamo, neppure in questi casi, abbandonarci alle nostre più o meno sottili esercitazioni d’ingegno dimenticando quel ch’è sempre l’essenziale, la poesia; e gioverà anzi contentarsi di arrivare a scoprire, se e in quanto esistano, i legami che congiungono siffatte figurazioni a quella che sola può dirsi l’allegoria fondamentale. D’altronde, neppure bisogna credere che, in un’opera così vasta non possano esserci parti opache o perché troppo strettamente legate a dottrine e pregiudizi ormai superati o perché la fantasia non è riuscita a far entrare nell’onda dell’ispirazione certi elementi culturali o morali.

[…] Al fondo della costruzione egli ha addirittura posto la storia del proprio personale smarrimento e dei vani tentativi da lui con le sole sue forze fatti per ritornare su la via retta, e degli impedimenti che si sono opposti, e della Grazia intervenuta a trarlo in salvo e farlo «puro e disposto a salire a le stelle» e degno, infine, della visione di Dio e della Incarnazione redentrice. Anche se rappresentata per via di figure (la selva, le tre fiere, Virgilio, Beatrice, Paradiso terrestre, Paradiso celeste) questa storia fa parte, ripeto, del senso letterale del poema, ed è errore considerarle come allegorie e, peggio, come l’allegoria fondamentale.

Nell’ambito dell’allegoria – e diciamola pure allegoria iniziale perché ci è data dai primi due canti presso che tutta o almeno nelle sue linee essenziali – si entra solo in quanto il poeta ha voluto adombrare in se stesso la società cristiana del suo tempo; e Virgilio e Beatrice assumono il significato dell’autorità imperiale e dell’autorità pontificia dei quali, l’una con gli argomenti della scienza umana e l’altra con gli insegnamenti della verità rivelata, debbono guidare gli uomini per la strada «del mondo» e «di Dio» rispettivamente alla felicità temporale ed all’eterna.


(Da Michele Barbi, Problemi fondamentali per un nuovo commento della “Divina Commedia”, Le Monnier, Firenze, 1956, pp. 117-122)

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