Capitolo II
Giancarlo Vigorelli, I Promessi Sposi: un romanzo popolare?
Compaiono sulla scena in questo capitolo Renzo e Lucia, i due giovani contadini promessi sposi, i protagonisti della storia. Più che giustificata, dunque, e subito, la definizione di “romanzo popolare”, di “romanzo degli umili”, che la critica ha da subito riservato all’opera di Manzoni, anche in chiave polemica, ma nel segno anche di una “rivoluzione romantica” nella letteratura italiana. Sul carattere popolare dell’opera, e sulla sua stessa forma di “romanzo”, si apre subito un serrato dibattito critico: cominciamo qui a seguirlo, nei suoi risvolti nazionali e internazionali, attraverso il quadro che ce ne propone Giancarlo Vigorelli (1913-2005), giornalista e intellettuale di spicco della cultura del secondo ’900, che fu per lunghi anni direttore del Centro Nazionale di Studi manzoniani e della Casa di Manzoni a Milano. Attraverso la sua analisi, giungerà a definire I Promessi Sposi “l’unico o quanto meno il primo romanzo democratico della nostra letteratura”.
D’accordo, i Promessi Sposi li abbiamo letti tutti: ma perché, quando, come? Quasi sempre per una precoce lettura scolastica. Il romanzo del Manzoni direi che è un libro adulto, di preferenza richiederebbe lettori adulti. Non che debba essere eliminato dalla scuola, ma ogni insegnante dovrebbe ottenere da ogni alunno la promessa, la garanzia di rileggere, avanti negli anni, quel grande libro, maturo quanto la vita stessa chiede di farsi matura.
L’Italia non aveva mai avuto un romanzo. Può vantare, dal Boccaccio al Bandello e oltre, una straordinaria tradizione narrativa di novellieri, appunto, non di romanzieri. Si pensi, di fronte all’unico romanzo del Manzoni – e, oggi, pur nominando Nievo e Rovani, Fogazzaro e Verga, e tutti i contemporanei – all’arsenale del romanzo europeo, romanzieri inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, russi, ecc., ognuno con tanti romanzi alle spalle; ebbene i Promessi Sposi risultano di fatto il primo e il più eccelso romanzo italiano, l’unico degno di figurare in linea, ad esempio, con il Don Chisciotte di Cervantes e di reggere il confronto con i più prestigiosi romanzieri del mondo intero.
Manzoni era vissuto a Parigi, pur tra intervalli, dal 1805 al 1810, per tornarvi tra il ’19 e il’20, proprio alla vigilia di mettere mano al Fermo Lucia, che diverrà poi i Promessi Sposi. Ne aveva letti, in quei soggiorni, di romanzi francesi e inglesi, oltre ad aver letti e riletti Cervantes e Shakespeare; anche se, in certo modo, sarà la lettura di Scott a sospingerlo verso il suo romanzo, avviando il 24 aprile del ’21 il Fermo e Lucia. Pur intramezzandovi metà Adelchi, e Il cinque maggio, e la Pentecoste, e Il nome di Maria, e la Lettera al Chauvet e l’altra al d’Azeglio Sul Romanticismo, il 17 settembre del ’23 il romanzo è portato a termine; subito revisionato, non soltanto formalmente, va alle stampe in tre volumi il 15 giugno 1827, presso l’editore milanese Vincenzo Ferrario. È prodigiosa, quasi inimmaginabile, questa sua stagione letteraria dal ’21 al ’27; ed è miracoloso che, nato di fatto unicamente dal Manzoni, la nostra letteratura, quasi dal nulla, si sia trovata ad avere di colpo un romanzo a misura europea.
I Promessi Sposi ebbero presto successo di pubblico, anche in forza di alcune edizioni-pirata, mentre registrarono subito un’accoglienza esitante, a occhi spenti e a denti stretti, da parte dei letterati, tranne qualche eccezione, dal Giordani allo Scalvini, dal Tommaseo al Montani, dal Pellico al Belli. Il Leopardi giocherà al ribasso del “romanzo cristiano” del Manzoni, rischiando quasi di preferirgli La Monaca di Monza di Giovanni Rosini, della quale il povero Giacomino accettò d’essere il revisore “pagina per pagina”, come aveva confidato sotto segreto, in una lettera del 17 giugno 1828, al padre!
Tanto, invece, era stato il successo popolare dei Promessi Sposi, che Ippolito Nievo introdurrà nel suo romanzo giovanile Il conte pecoraio la scena, appunto, di una lettura a puntate della storia dei due promessi; e, tra lacrime vere, un personaggio vi racconta e commenta quella storia, dove i signori sono sempre “in lega fra loro per perdere le anime della povera gente: anche quella monaca che pur si era votata a Gesù Cristo… E quella Lucia così brava a star salda per il suo Renzo… Oh, bisogna farla vedere a questi prepotenti, che si vantano fra loro di corbellare le credule contadine!…”. Continuava il Nievo: “Per una tal notte, tra quel solenne silenzio e quegli echi misteriosi, la melanconia Maria si cimentava a rifare nel più umile e rozzo vernacolo il più grande libro del nostro secolo…”, quel libro che era stato scritto da “un buon signore, il quale, mi disse la Contessa, è ancora vivo a Milano…”.
Quando, però, il romanzo del Manzoni venne alla luce, la resistenza, anzi, l’accusa maggiore dei letterati fu proprio che i suoi protagonisti fossero due contadini, due sprovveduti brianzoli. Paride Zajotti recalcitrava davanti alla “miserabile cronaca d’un oscuro villaggio”. Felice Romani insinuava: “Due contadini che per la prepotenza di un nobile e per la dappocaggine di un curato non si possono sposare, sono essi gli eroi da collegare degnamente ad un’epoca storica qualunque sia?”. Il Tommaseo, che da buon classicista ha sempre tenuto a distanza il romanzo pur facendosi poi romanziere a sua volta, arriverà a dire che il Manzoni “si è abbassato a voler fare un romanzo”; e concludeva che, per bello che fosse, “quel libro è pur sempre un romanzo” che ha per protagonisti due “villani”.
Nessuno, insomma, capì, e tanto meno condivise, la grande rivoluzione letteraria inaugurata e compiuta dal Manzoni di aver posto fine col suo romanzo a tutta una letteratura seducentemente classica, ma spesso soltanto accademica,ancorata su mitologie greco-romane e su idolatrie pagane come se l’età cristiana non fosse neppure venuta fuori dalle catacombe. Il romanticismo del Manzoni, anticipato con gli Inni sacri e con le due tragedie, e praticato al vertice con i Promessi Sposi, non era soltanto il rigetto di una cultura pseudoumanistica, ma era effettivamente la presa di coscienza di una nuova concezione della letteratura come “un ramo delle scienze morali” – questa è la più bella definizione datane dal Manzoni – e quale, d’altra parte, già da tempo era stata praticata dai più alti scrittori europei, da Shakespeare a Pascal, da Calderón a Racine, da Cervantes a Goethe. Che sono poi alcuni tra i veri nomi da fare, se si vogliono trovare certe giuste corrispondenze con il Manzoni, che con la tradizionale letteratura italiana ha sempre avuto poco da spartire, e che più ancora ha da sempre detestato il letterato italiano con tutto il bagaglio del suo “mestiere guastato” e la maschera continua della sua “doppia verità”.
Non a caso fu proprio Goethe ad accreditare di colpo in Europa il Manzoni. Un paio di mesi prima della pubblicazione dei Promessi Sposi, erano uscite a Jena le Opere poetiche di Manzoni con una sua prefazione; e sarà bene ricordare che Goethe per un decennio, dal 1818 al 1827, non si stancò di scrivere diffusamente degli Inni sacri, del Carmagnola, dell’Adelchi, tradusse Il cinque maggio, tornò spesso a ragionare sul suo romanzo lamentando di non avere più le forze per farsene,come avrebbe desiderato, il traduttore. Certo, da Fauriel a Sainte-beuve, da Stendhal a Poe, dal Sismondi al Vieusseux, dal Cousin al Burckhardt, sino a Hofmannsthal, gli apprezzamenti più congeniali gli sono pervenuti di preferenza da scrittori stranieri.
Da quando data, allora, la vera conoscenza del Manzoni – e, per identificazione, dei Promessi Sposi –, se alla fine del 1840-42, quando uscì l’edizione risciacquata, ben pochi valutavano quanto egli aveva scritto dal 1810 in avanti, e già lo si restringeva, bene o male, soltanto al suo unico romanzo, delusi un po’ tutti che non ne avesse scritti altri, come i grandi romanzieri di tutto l’Ottocento, e non a caso lasciarono cadere nel più ostile silenzio la Colonna infame?
Per ben rispondere, bisogna dire che, riservato e schivo com’era, la scarsa possibilità di conoscenza dell’uomo Manzoni non ha facilitato una conoscenza meno esterna, meno formale, del Manzoni scrittore. Ma, a veder bene, c’è una ragione più scoperta, al fondo di una nostra misconoscenza del Manzoni, nonostante l’apparente vantata godibilità, ed è che, non contenti di avere limitato il Manzoni soltanto ai Promessi Sposi, saltando a pie’ pari tutto il resto, sia fuori della scuola, sia soprattutto dentro la scuola, noi abbiamo ridotto i Promessi Sposi ad una grammatica degli italiani, invece di salutare in excelsis il romanzo in tutti i suoi valori.
Questo romanzo-poema, che è un grande romanzo morale e civile, che è e resta l’unico o quanto meno il primo romanzo democratico della nostra letteratura, scritto da un aristocratico che condannava ogni privilegio e che come nessun altro scrittore italiano ha sempre denunciato il Potere ovunque favorisse o anche soltanto adombrasse una prevaricazione a danno dell’individuo, e che di conseguenza disprezzava i letterati italiani che parlavano di se stessi come di esseri sovrumani sparlando di tutto e di tutti “salvo sempre i potenti vivi”: ebbene, questo romanzo del sentimento tragico della vita, che unicamente la religione e la pietà possono temperare e persino redimere, noi l’abbiamo trasformato in un romanzo edificante, persino semplicistico, tutto a senso unico, ignorandone gli abissi tanto del Male quanto e più della Grazia, stravolgendolo verso quel “riposo morale” che il Manzoni aveva detto essere invece una finzione “dissimile dal vero”.
Nessuna meraviglia, quindi, che la figura e l’opera del Manzoni – nonostante la stentorea glorificazione abilmente incanalata a farne subito un classico piuttosto scolastico – sia andata, pressappoco, dal 1850 in avanti, convenzionalizzandosi in un oggetto venerando,ma devitalizzato e devitalizzante. Oltretutto, anche quel Risorgimento, che nel solco del Romanticismo era stato vissuto dal Manzoni con passione pari all’onestà, era andato contaminandosi; e, annacquata anche la Scapigliatura, veniva avanti una letteratura imbastardita, che nel riproporsi classica e romana non era che bizantina, e finirà persino a diventare littoria.
Giancarlo Vigorelli, “I Promessi Sposi da ieri a oggi”, in AA.VV., Manzoni. Il suo e il nostro tempo, Electa, Milano 1985; pp. 144-147