Introduzione
Giuseppe Pontiggia, Manzoni e l’anonimo
Accanto all’Autore Manzoni e al Narratore onnisciente Manzoni, a “scrivere” i Promessi Sposi partecipa un altro Narratore, l’Anonimo autore del manoscritto secentesco da cui appunto Manzoni Narratore afferma di prendere la storia del romanzo. L’Anonimo è in realtà, al di là delle varie ricerche e identificazioni critiche successive, il primo “personaggio” dei Promessi Sposi, sul quale punta subito la fondamentale polemica storica e morale dell’opera nei confronti di un secolo e di una cultura, il Seicento e il Barocco.
Sulla natura e sulle caratteristiche dell’Anonimo, che riprende in forma originale l’artificio comune del manoscritto anonimo quale fonte di opera narrativa, riflette anche lo scrittore Giuseppe Pontiggia (1934-2003),uno dei maestri della narrativa italiana del secondo ’900 (autore tra l’altro del romanzo autobiografico Nati due volte, vincitore del Premio Campiello 2001). Lo fa con un saggio contenuto nello splendido volume Manzoni Europeo, uscito nel 1985 in occasione del bicentenario della nascita di Manzoni, di cui riproduciamo qui le prime pagine.
Il primo personaggio che appare nei Promessi Sposi è un Anonimo: un autore del Seicento che racconta una storia avvenuta ai tempi della sua gioventù. Contro di lui, che pure è la sua fonte, l’autore del romanzo esercita una aggressività quale mai sarà dato di ritrovare in Manzoni. Il suo manoscritto «dilavato e graffiato» comincerebbe infatti con una «grandine di concettini e di figure». È vero che il suo stile procederebbe poi «più naturale e più piano»; ma l’ammissione simula la longanimità solo per eluderla: antica rettorica che ricorda i supplizi antichi, quando le vittime venivano ristorate solo per prepararle al seguito. Seguono, infatti, dedicate allo stile, tre brevi esclamative, nel cui ordine è difficile rilevare un crescendo, giacché la vetta è subito conquistata dalla prima e mantenuta dalle successive: «ma com’è dozzinale! com’è sguaiato! com’è scorretto!». Le esemplificazioni non sono meno sprezzanti: «Idiotismi lombardi a iosa, frasi della lingua adoperate a sproposito, grammatica arbitraria, periodi sgangherati».
L’elenco dei difetti, negli uomini e nelle opere, è generalmente più lungo e più agevole che quello delle loro qualità. Ma in Manzoni si direbbe sia anche più gratificante. Vi indugia infatti con quell’accanimento che, se non si propone il piacere, è perché lo presuppone. All’Anonimo, «rozzo insieme e affettato», vengono infatti imputate «declamazioni ampollose, composte a forza di solecismi pedestri» e anche una «goffaggine ambiziosa». Ma, già qualche riga prima, al secentista era stato riserbato l’aggettivo più perfido: buono.
Buono è aggettivo dalle applicazioni imprevedibili. Negato agli uomini, almeno nella sua accezione radicale, dal messaggio evangelico («Perché mi chiami buono? Nessuno è buono all’infuori di Dio solo», Mc 10:18, Lc 18:19), diventa l’attributo su cui Dostoevskij si concentra ossessivamente, dopo Delitto e castigo, lavorando a un nuovo romanzo: «L’idea principale è di rappresentare in modo positivo un uomo effettivamente buono. Non vi è nulla al mondo di più difficile, specialmente oggi... Ricorderò soltanto che di uomini buoni, nella letteratura cristiana, il solo compiuto è Don Chisciotte. Ma questo perché nello stesso tempo è anche comico. Pickwick di Dickens (un’idea molto più debole di Don Chisciotte, tuttavia enorme) è anche lui comico e per questo ti prende.» E Dostoevskij conclude: «Il romanzo si intitola L’idiota.»
Buono si è però divulgato, ossia diluito, in accezioni più deboli, di volenteroso e mite. Uomo buono irradia ancora, forse per l’anticipazione del sostantivo, una sua luce, che in buon uomo si è trasformata in grigiore. Come bravo, che una volta significava coraggioso, spavaldo e anche prepotente (basta pensare agli stessi Promessi Sposi), ma che alla lunga, convivendo con uomo, ha finito per trasformarlo in un paziente animale domestico. Può essere anche questo un segno dei tempi.
Buono spesso ci si compiace di attribuirlo al nemico, che si preferisce immaginare inoffensivo. Tra i vari modi di negare il male c’è anche quello linguistico di chiamarlo bene. E accade di sentire uomini rosi dalla gelosia che fanno precedere da buono il nome del rivale. L’espressione che usa Manzoni di «buon secentista» appartiene forse a questa tradizione di dubbia binomia. […]
Il narratore anonimo, da cui quello ufficiale attingerebbe la storia, era, all’epoca di Manzoni, un artificio romanzesco piuttosto comune. Ma non c’è niente di comune in Manzoni. E quanto al romanzesco, la sua riflessione si esercitò, nel corso di una intera vita, a scoprirne gli aspetti leciti e positivi e a scartarne quelli banali e fuorvianti. Perciò in lui l’artificio diventa problematico, non è più una soluzione, ma una incognita, non è più una risposta, ma una domanda.
Nella prima stesura del romanzo, l’Anonimo non è ancora un personaggio da schiacciare sotto il peso più temibile, quello del ridicolo, ma un primo narratore da cui il secondo deve distanziarsi. Quanto a Manzoni, non è né l’uno né l’altro. Che alcuni lo scambino per il secondo narratore, è il segno di un pregiudizio realistico abbastanza diffuso; lo stesso che aveva fatto dire a una signora, indicando un quadro nello studio di Bracque: «Ma maestro, questa donna ha un braccio più lungo dell’altro!» «Ma signora – le aveva riposto Bracque, – questa non è una donna. È un quadro.»
Anche il narratore è un personaggio dentro il quadro. E del resto, a differenziarlo da Manzoni, basterebbe già la finzione dell’Anonimo, a cui il narratore simula di rifarsi.
Ma proprio questa simulazione lo mette in crisi. Perché, pur essendo il narratore solo una proiezione dell’autore, non può comunque sottrarsi a quella che per Manzoni è una legge espressiva inderogabile: quella della verosimiglianza. Deve dunque essere verosimile che il narratore attinga a una storia già scritta e insieme la riscriva completamente.
Ma tutto questo, a rifletterci, non è molto verosimile. Un retore del Seicento spagnolo in Italia che non solo indugia sulle disavventure di due umili, ma chiosa le loro reazioni psicologiche – come risulta più volte, grazie alle indiscrezioni del secondo narratore, nel corso del romanzo – non appare infatti molto probabile. Che taccia il nome di Monza perché il casato della Signora era allora potente, questo sì è verosimile. E che sia altrettanto reticente sul casato di padre Cristoforo o sul palazzotto di don Rodrigo o sulla famiglia di Egidio o sul castello dell’Innominato, sul quale, come è intuibile, non abbonda in particolari, questo non stupisce: in una eredità di stile alto, che celebra solo personaggi illustri, e in una tradizione, come quella spagnola, usa a fare precedere e seguire il nome e il cognome da squilli di tromba: «l’illustrissimo ed Eccellentissimo Signor Juan Fernandez de Velasco, Contestabile di Castiglia; Cameriero maggiore di Sua Maestà, Duca della Città di Frias, Conte di Haro e Castelnovo, Signore della Casa di Velasco, e di quella delli sette Infanti di Lara, Governatore dello Stato di Milano, etc.».
Si pensi invece alla tradizione romana: «Cicero consul». Dove la brevitas si fonda sulla precedenza data all’uomo, non alla carica: abbastanza significativo per un popolo che ha dominato mille anni in Occidente e a cui si imputa l’abuso dell’autoritarismo anziché riconoscergli l’uso dell’autorità.
È però meno verosimile che l’Anonimo sia reticente sul casato e sul paese di un oscuro curato quale don Abbondio e dedichi tanto spazio alla sua psicologia.
Queste inverosimiglianze non apparirebbero neppure tali se il narratore, come tanti suoi contemporanei, trattasse la sua fonte in modo verosimile, ossia come un artificio, e giocasse a carte scoperte. Ma con Manzoni il gioco si complica. Soprattutto nella prima stesura finge, attraverso il secondo narratore, di trattare con serietà il primo e così si trova subito in difficoltà. Ha già violato una prima volta la legge della verosimiglianza, trasformando un secentista in un romantico. Ma la viola una seconda volta anche quando cerca di giustificare perché ha rifatto un testo che aveva già sottoposto a una occulta, anacronistica metamorfosi.
Scrive, non senza imbarazzo, nella prima stesura, accennando alle ragioni del suo rifacimento: «Aveva trascritta fino a questo punto una curiosa storia del secolo decimo-settimo, colla intenzione di pubblicarla quando per degni rispetti anch’io stimai che fosse meglio conservare i fatti e rifarla di pianta. Senza fare una lunga enumerazione dei giusti motivi che mi vi determinarono, accennerò soltanto il vero e principale. L’autore di questa storia è andato frammischiando alla narrazione ogni sorta di riflessioni sue proprie; a me rileggendo il manoscritto ne venivano altre e diverse; paragonando imparzialmente le sue e le mie, io veniva sempre a trovare queste ultime molto più sensate, e per amore del vero ho preferito lo scrivere le mie a copiare le altrui; stimando anche che chi ha una occasione per dire il suo parere sopra che che sia non debba lasciarsela sfuggire».
Se mai fantasma di doppio si fosse incarnato per Manzoni, avrebbe preso le sembianze dell’Anonimo. Ne sono segno indiretto molti particolari: anzitutto la protesta di equità, atteggiamento fortemente indiziato a suggerire il contrario; poi la «lunga enumerazione dei giusti motivi», che però viene omessa; e quell’«imparzialmente» collocato in una posizione imbarazzante, tra «paragonando» e «le sue e le mie»; e ancora quell’«amor del vero», che induce a preferire il proprio all’altrui; e infine quel rapace cogliere l’occasione di dire il proprio parere su qualsiasi cosa: argomento che, primo per importanza, viene messo per ultimo, come nelle conversazioni, non si sa se per accentuarne il peso o per occultarlo.
Giuseppe Pontiggia, “Manzoni e l’anonimo”, in Manzoni europeo, Cariplo, Milano 1985; pp. 10-12