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CorpoAvro 683 Lancaster: un bombardiere pesante quadrimotore ad ala images progettato e costruito dall'azienda britannica Avro. Fu utilizzato dalla RAF a partire dal 1942.
Nel 1940, quando fu chiaro che lo sbarco in Gran Bretagna era impossibile, i bombardieri tedeschi presero di mira le città, nella speranza di demoralizzare la popolazione britannica e spingerla a chiedere la resa.
Il primo impatto veramente traumatico si ebbe il 14 novembre 1940, allorché 515 bombardieri tedeschi distrussero completamente la città di Coventry, che ospitava nel proprio centro molte fabbriche di munizioni.
Il numero delle vittime fu relativamente modesto (568 morti), ma in una notte furono distrutti circa 60 000 edifici. La stampa inglese restò colpita dal fatto che un’intera città medievale fosse stata rasa al suolo in poche ore: «La famosa cattedrale – scrisse The Guardian, il 16 novembre - è poco più di uno scheletro, grandi quantità di macerie che formano enormi cumuli nelle sue mura spoglie, mentre altri obiettivi sono stati due chiese, alberghi, club, cinema, rifugi pubblici, bagni pubblici, stazioni di polizia e uffici postali». Londra (tra il settembre 1940 e il dicembre 1941) fu attaccata 57 volte: morirono 14 000 londinesi, in images 250 per ogni aggressione. Si tratta di una quota molto alta, non appena si tiene presente che – nel 1944 – gli inglesi provocavano alla Germania circa 127 vittime al giorno, rovesciando sul suo territorio una quantità di esplosivo e di bombe incendiarie molto superiore.
Il principale attacco su Londra ebbe luogo il 29 dicembre 1940; l’obiettivo era di scatenare una tempesta di fuoco, cioè un gigantesco incendio che non fosse più controllabile da parte dei pompieri. I vari focolai suscitati dalle bombe incendiarie, però, non si fusero in un unico rogo, cosicché Londra superò questa esperienza, che tutti (testimoni e storici) considerano la più pericolosa delle incursioni aeree subite dalla capitale britannica in tutta la guerra.
Lancaster bomber LM309 JO-V. Questo aereo è stato perso in una collisione a mezz'aria in azione nel settembre 1944.
Di fronte al bombardamenti su Londra, gli inglesi provarono a reagire e a colpire la Germania. I loro tentativi, però, furono a lungo maldestri e inefficaci. Nei cieli della Ruhr, la più importante regione industriale tedesca, una spessa colte di fumi rendeva gli obiettivi praticamente invisibili; dai risultati di un’inchiesta ufficiale emerse che solo un aereo su dieci arrivava sull’obiettivo, il che oltretutto voleva dire che aveva scaricato il proprio carico nel raggio di cinque km da esso. Nel medesimo tempo, il 21% dei velivoli inviati restava colpito e non faceva ritorno alla base. Da più parti, il governo ricevette forti pressioni affinché i fondi impiegati nella costruzione di grandi bombardieri bimotori o quadrimotori fossero dirottati verso la produzione di aerei più piccoli, capaci di appoggiare la marina o l’esercito in azioni di combattimento. Preso atto della difficoltà di colpire impianti e strutture industriali, il governo e il comando britannici decisero di cambiare strategia e di puntare alla distruzione del morale della popolazione tedesca, colpendo nel modo più duro possibile i centri urbani della Germania. La direzione di queste operazioni di bombardamento fu assegnata ad Arthur Harris, che scelse come primo obiettivo Lubecca: centro industriale, base per gli U-Boot e porto di primaria importanza, terminale di arrivo dei minerali ferrosi provenienti dalla Svezia.
Famiglia tedesca di rifugiati passa davanti ad un cartello con indicazioni scritte in russo, fotografia di Robert Capa.
Lubecca fu attaccata la notte del 28-29 marzo 1942 da 234 bombardieri; fu la prima città tedesca a essere incenerita: 320 persone restarono uccise e 16 000 si trovarono senza tetto.
Le novità introdotte furono micidiali. Innanzi tutto, si decise di impiegare un doppio tipo di strumenti distruttivi, associando le bombe ad alto potenziale esplosivo a spezzoni incendiari, cioè a ordigni molto più piccoli, ma capaci di suscitare e alimentare grandi incendi. In pratica, il primo tipo di bombe sventrava le case, le strade e le condutture, mentre il secondo distruggeva ogni cosa col fuoco. In secondo luogo, a Lubecca fu collaudata la tecnica del doppio attacco: dopo una prima ondata di aerei, ne subentrava una seconda, che assumeva come bersaglio e punto di riferimento i grandi incendi scatenati dall’incursione iniziale.
Formazione di bombardieri americani B-17 solcano i cieli della Germania.
Il 27 luglio 1943, Amburgo fu attaccata da 787 velivoli, che scaricarono 2326 tonnellate di bombe, per la maggior parte incendiarie.
La città fu travolta da una tempesta di fuoco, espressione che non è una metafora, ma denota un tipo particolare di incendio caratterizzato da altissime temperature (tra gli 800 e i 1000 gradi); in tali condizioni, si creano correnti ascensionali, che risucchiano verso l’alto tutto l’ossigeno. Quindi, anche migliaia di persone che avevano trovato protezione nei rifugi non riuscirono più a respirare e morirono per asfissia. In totale, pare che le vittime del bombardamento di Amburgo siano state circa 40 000: le più fosche previsioni di Douhet e Trenchard trovarono la più terribile delle conferme. Alla fine del 1943, i bombardieri inglesi tentarono di lanciare una grande offensiva contro Berlino, ma incontrarono una resistenza durissima: a fronte di circa 10 000 berlinesi uccisi, tra l’agosto 1943 e il marzo 1944 la RAF perse, nei voli contro la capitale del Reich, 625 aerei (pari al 5,8% della flotta) ed ebbe 2690 uomini uccisi e altri 1000 catturati. Questo sostanziale insuccesso, insieme alla necessità di preparare lo sbarco in Normandia, portò a un temporaneo allentamento della pressione sulle città della Germania.
Catene umane lavorano tra le macerie di Berlino distrutta dai bombardamenti.
Lo scenario della guerra aerea mutò nel dicembre 1944, allorché i tedeschi lanciarono un’ultima disperata offensiva in Belgio, nella regione delle Ardenne. Anche se l’attacco fu infine respinto (e l’esito della battaglia fu deciso sia dalla superiorità aerea anglo-americana, sia dalla carenza di carburante che ormai affliggeva i tedeschi), esso fu un vero shock per i comandi alleati, che si erano illusi mancasse poco al collasso della Germania.
Il 3 febbraio 1945, le forze aeree americane (che utilizzavano le cosiddette fortezze volanti, o B17, scortate da caccia P51 Mustang, capaci di percorrere lunghissime distanze) lanciarono una delle più devastanti incursioni su Berlino, che provocò la morte di 3000 civili e la completa distruzione del palazzo imperiale. Dai russi, intanto, venne la richiesta di colpire le zone orientali del Reich, in modo da impedire la concentrazione delle ultime riserve tedesche. Nacque così la decisione di colpire Dresda, che fino ad allora non era mai stata seriamente danneggiata.
Colonna di soldati tedeschi con le pale sulle spalle mentre vanno a ripulire le macerie dopo i bombardamenti degli anglo-americani. Berlino, 1945.
Il bombardamento di Dresda ebbe luogo la notte tra il 13 e il 14 febbraio 1945 e si svolse secondo il collaudato sistema del doppio attacco.
Una prima ondata di 244 quadrimotori inglesi Lancaster rovesciò sul centro storico della città sassone 881,1 tonnellate di bombe (per 57% dirompenti, per il 43% incendiarie) in circa 15 minuti (tra le 22,15 e le 22,30) e riuscì a provocare una tremenda tempesta di fuoco.
Il secondo gruppo di bombardieri (550 aerei) arrivò tre ore dopo e allargò ulteriormente l’area colpita, che fu la più vasta mai colpita in una singola aggressione.
Le bombe della seconda ondata colpirono anche la zona della stazione ferroviaria, in cui si trovavano moltissimi profughi fuggiti dalle zone che stavano passando sotto il controllo dei russi. «Nel caso dell’attacco incendiario della RAF su Lipsia di poco più di un anno prima, il numero sorprendentemente basso di vittime era stato in larga parte dovuto alla disobbedienza della popolazione cittadina. Anziché stare nei loro rifugi fino al segnale ufficiale del cessato allarme, i cittadini di Lipsia erano usciti fuori in fretta e avevano preso parte attiva allo spegnimento dei fuochi prima che si diffondessero e diventassero ingestibili. La popolazione di Dresda fu più passiva e obbediente, forse più fiduciosa nelle autorità. Avrebbe pagato cara questa fiducia» (F. Taylor).
I cittadini, dopo il bombardamento cercano di proteggersi dal fumo avvolgendosi in coperte e indossando maschere antigas. Berlino, 1943.
Il bombardamento di Dresda destò grande scandalo e numerose polemiche, durate a lungo anche dopo la guerra. Tuttavia, gli studi più recenti ritengono che la propaganda nazista abbia gonfiato notevolmente il numero delle vittime, affermando che erano centinaia di migliaia. In realtà, anche se la tempesta di fuoco distrusse interamente una delle più belle città della Germania orientale e l’esperienza degli abitanti fu terrificante e veramente apocalittica, le stime più oneste e realistiche oscillano fra i 25 e i 40 000 morti.
Berthold Meyer, uno studente di ingegneria di ventuno anni, ricorda: «Solo chi è stato in un mare di fiamme come quello può giudicare che cosa significhi respirare in un’atmosfera che è così povera di ossigeno… combattendo, al contempo, contro correnti di fuoco e di aria orribilmente calde e che cambiano continuamente direzione. I miei polmoni erano dilatati. Le mie ginocchia iniziarono a indebolirsi. Alcune persone, soprattutto gli anziani, cominciarono a rimanere indietro. Si sedevano, apatici, sulla strada, o su mucchi di macerie e si lasciavano semplicemente morire di asfissia».
Gente esce da un concerto passando tra le rovine della città bombardata dagli anglo-americani. Berlino, 1945.
Lo scrittore tedesco Hans Erich Nossack fu uno dei pochi intellettuali tedeschi che cercò di esprimere i sentimenti che provò a cospetto delle rovine delle città bombardate. Nossack era fuori città, quando i bombardieri colpirono Amburgo il 27 luglio 1943. Al suo ritorno, trovò uno scenario surreale, impossibile da narrare perché diverso da qualunque situazione conosciuta: «Quel che vedevamo intorno non ci ricordava in alcun modo ciò che era andato perduto. Non aveva nulla a che fare con questo. Era qualcosa di diverso, era l’estraneità in sé, era l’autentico non possibile… Ho attraversato tutti questi quartieri, a piedi o in auto. Solo alcune delle strade principali erano tenute sgombre, ma chilometro dopo chilometro non c’era più una sola casa viva. E se si provava a infilarsi nelle strade laterali, si smarriva subito ogni senso del tempo e dell’orientamento. Mi perdevo completamento in zone che credevo di conoscere bene. Cercavo una strada che avrei dovuto trovare anche a occhi chiusi. Ero già lì dove pensavo che si trovasse ma non sapevo come cavarmela. Contavo sulle dita i solchi laterali che s’aprivano fra i detriti, ma nemmeno così riuscivo a ritrovarla. E se dopo ore s’incontrava un’anima, si trattava comunque di qualcuno che vagava come in sogno attraverso quella desolazione eterna. Si passava uno di fianco all’altro con uno sguardo timido e parlando a voce ancora più bassa di prima. Magari da qualche parte splendeva il sole, che però nulla poteva su questo crepuscolo».
Il pilota Yngve William Anderson, accanto al suo P-51 Mustang.
Di fronte ai bombardamenti della guerra, la maggior parte dei tedeschi (compresi gli intellettuali e gli scrittori) scelse la negazione, cioè fece finta che non fossero accaduti, cercando al più presto di riprendere la vita normale. In realtà, interrogarsi sui bombardamenti significava chiedersi perché avevano avuto luogo, cioè parlare delle responsabilità della guerra e del consenso di cui Hitler aveva goduto fra il popolo tedesco, fino a poco tempo prima della disfatta finale. «Stig Dagerman, nell’autunno del 1946 corrispondente dalla Germania per lo svedese Expressen, scrive da Amburgo di aver attraversato con la ferrovia, viaggiando per un quarto d’ora a velocità normale, il paesaggio lunare tra Hasselbrook e Landwehr e di non aver visto anima viva in quell’immane contrada desolata, forse la più raccapricciante distesa di rovine dell’intera Europa. Il treno, prosegue Dagerman, era sovraffollato come tutti i treni in Germania, ma nessuno guardava fuori dal finestrino. E poiché lui invece lo faceva, tutti capirono che era straniero» (W.G. Sebald).
Gli attacchi scatenati contro le città tedesche furono condotti all’insegna della sperimentazione di tecniche di distruzione sempre più sofisticate. «Prima di raggiungere la perfezione, si procedette a lungo a tastoni, attraverso correzioni progressive. Inizialmente il fuoco veniva appiccato soltanto per illuminare gli obiettivi delle bombe dirompenti durante gli attacchi notturni. L’analisi comparativa delle riprese aeree dimostrò che settemila tonnellate d’esplosivo causavano trenta chilometri di danni, mentre la stessa quantità di sostanze incendiarie ne provocava centocinquanta.
L’opinione secondo cui le città erano più facili da bruciare che da far esplodere e che un incendio di dimensioni sufficienti avrebbe raggiunto entrambi gli obiettivi si consolidò solo nell’estate del 1943. Ci si arrivò con l’esperienza e con una serie di bombardamenti che in parte funzionarono e in parte no».
Il Focke-Wulf Fw 190, noto anche come Würger, era un caccia monoposto impiegato dalla Luftwaffe durante il secondo conflitto mondiale. Era più veloce dello Spitfire.
Alla tecnica della distruzione sistematica elaborata dagli alleati, i tedeschi opposero un efficientissimo sistema di contraerea e, infine, anche un valido aereo da caccia: il FW190.
Il successo maggiore fu colto, da parte tedesca, il 30 marzo, allorché 795 bombardieri inglesi furono inviati su Norimberga, ma furono intercettati dai caccia tedeschi: 95 aerei alleati (l’11%) furono abbattuti. Il 17 agosto 1944 si svolse invece la più vasta battaglia di tutta la guerra, nei cieli tedeschi: 376 bombardieri B 17 americani (soprannominati fortezze volanti) si scontrarono con circa 300 caccia tedeschi, che riuscirono ad abbattere 60 aerei nemici (un numero pari al 19% della forza di attacco) e a danneggiarne seriamente altri 100; solo 25 caccia tedeschi, invece, furono abbattuti. Per risolvere in modo efficace il problema dei caccia tedeschi (che abbattevano un elevatissimo numero di bombardieri alleati), si potenziò la scorta di caccia che accompagnavano gli aerei inglesi e americani.
I caccia alleati furono dotati di serbatoi supplementari, in modo da permettere loro di arrivare fino in Germania, nei cui cieli venivano ingaggiati furiosi duelli con gli intercettatori tedeschi.
Il più efficace caccia alleato a lungo raggio fu il P51 Mustang, che era prodotto in fabbriche americane, ma montava un motore Rolls-Royce Merlin, analogo a quello dello Spitfire.
La prima missione compiuta dal P51 Mustang ebbe luogo nel novembre 1943, allorché i caccia a lungo raggio accompagnarono i bombardieri impegnati a colpire Kiel: fu la distanza più lunga mai coperta fino ad allora da un caccia. Più tardi, fu normale che i P51 Mustang accompagnassero i bombardieri fino a Berlino.
Formazione di North American P51 Mustang, in volo sui cieli della Germania.
Nel 1944, a livello produttivo, gli americani furono in grado di fabbricare nuovi caccia a velocità crescente: nel 1944, in otto mesi, la dotazione di caccia quadruplicò.
I tedeschi, invece, si trovarono prigionieri di un circolo vizioso sempre più difficile e problematico: mentre il numero dei caccia diminuiva (perché nei duelli aerei, gli aerei nemici erano ormai superiori: nel novembre 1944, la Luftwaffe – l’aviazione militare tedesca – perse il 21% dei propri caccia, in dicembre il 23%), la produzione crollò, passando da 873 velivoli in luglio a 663.
All’inizio del 1945, la disperata situazione dell’aviazione tedesca venne efficacemente descritta dal generale Adolf Galland: «La proporzione in cui ci troviamo a combattere è oggi circa di 1 a 7. Gli standard americani sono straordinariamente elevati. I caccia attivi di giorno hanno registrato più di 1000 perdite negli ultimi quattro mesi, e tra loro i nostri migliori ufficiali. Una simile sproporzione non può essere colmata. Le cose sono a un punto tale che il pericolo di un collasso del nostro corpo è reale». Si può dire che, a quel punto, nei cieli la Germania aveva già perso la guerra.
Dopo un attacco aereo, la popolazione proteggendosi occhi e naso dal fumo e dalla polvere, cerca di salvare le poche cose che è riuscita a portar via dalle abitazioni. Berlino, febbraio 1945.
Nel 1945, Helga Schneider aveva cinque anni. Nel 1995, dopo un lungo silenzio, decise di pubblicare le proprie memorie, che presentano in modo crudo ed efficace gli ultimi mesi di guerra, in una Berlino affamata, assediata dai russi e sottoposta ai continui bombardamenti degli anglo-americani: «Eravamo ormai quasi arrivate al portone quando all’improvviso una donna ci corse incontro gridando: «Via! Correte al rifugio! stanno arrivando!». Alzai il viso e vidi un triangolo di aeroplani che volava basso, seguito a breve distanza da altri triangoli; contemporaneamente si alzò un coro di sirene ululanti. Il cuore mi saltò in gola: l’allarme era suonato troppo tardi, quelli avevano già iniziato a mitragliare e subito scoppiò l'inferno. Rimasi senza fiato, mentre avevo l’impressione che il mio cuore si fosse fermato. Poi un potente spostamento d’aria mi scaraventò contro il portone. Persi i sensi, convinta di scivolare in un burrone profondo. Quando rinvenni, mi ritrovai con un forte ronzio nelle orecchie. Tutto intorno a me sembrava volar, pezzi di mattone, pezzi di asfalto e pezzi di mondo... Sentivo la bocca e le narici riempirsi di polvere e sabbia e mi sembrava di soffocare. Tossivo. Sputavo terra, sangue e frammenti di mattone. Cercai di alzarmi ma qualcosa mi schiacciò al suolo. Una sorta di calore bruciante mi asfissiò... E allora la vidi. Era la donna che aveva gridato «Correte al rifugio!». Giaceva poco lontano da noi in una pozza di sangue, senza testa. Vomitai. Vomitai l’anima. Vomitai tutto l’orrore per questo mondo».
Lancaster
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