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CorpoStalin in primo piano in una foto degli anni Trenta del Novecento.
In Unione Sovietica, Lenin – il leader comunista che aveva diretto la rivoluzione comunista del 1917 – morì nel 1924, all'età di 54 anni. Dopo una serie di scontri fra i principali esponenti comunisti, nel 1927 risultò padrone assoluto della situazione Iosif Vissarionovic Dzugasvili, detto Stalin. Innanzi tutto, il nuovo leader si sforzò di potenziare l’industria pesante, al fine di riuscire a competere, sul piano militare, con le grandi potenze capitalistiche. Nel giro di dieci anni, in effetti, l’URSS divenne una potenza industriale capace di competere con gli Stati Uniti e con la Germania.
I costi umani di tale impresa, tuttavia, furono elevatissimi, e il peso maggiore di quell’operazione fu sopportato dai contadini. Stalin infatti si propose un duplice fine: garantire il regolare rifornimento dei centri industriali ed esportare grandi quantità di grano all’estero, in cambio di tecnologia e capitali da impiegare nell’industria pesante (produzione di acciaio, estrazione di carbone, costruzione di grandi bacini idroelettrici...).
Membri della gioventù comunista scavano in un cimitero di Odessa alla ricerca di sacchi di grano che si ritiene fossero stati nascosti dai kulaki per sottrarli all'ammasso forzato, aprile 1930.
Nel gennaio del 1930, Stalin decise di schiacciare con la forza la resistenza di tutti quei contadini che si fossero opposti al suo tentativo di far passare l’intera agricoltura sovietica sotto lo stretto controllo dello Stato. Di conseguenza, il dittatore ordinò di procedere alla liquidazione dei kulak come classe. In pratica, ciò significò una massiccia offensiva contro tutti i contadini agiati, accusati di essere appunto dei kulak, cioè degli speculatori, degli sfruttatori del popolo, degli strozzini. L’offensiva staliniana nei loro confronti iniziò con una massiccia campagna di propaganda, che bollò dipinse i contadini più ricchi, che facevano anche uso di manodopera salariata, come parassiti, come criminali e, soprattutto, come i principali responsabili dell’arretratezza del paese.
Le violenze contro i kulaki e la deportazione vera e propria furono condotte in genere da attivisti del partito comunista: per lo più, erano giovani operai che vivevano nelle città e che venivano temporaneamente trasferiti nelle campagne appunto per cacciare i kulak dalle loro case. Nei diversi villaggi, si unirono a loro anche numerosi individui marginali (contadini poveri o delinquenti veri e propri), che speravano di impossessarsi dei beni e delle terre degli individui arrestati.
Un gruppo di kulaki processato per complotto ai danni dello stato: il processo si concluderà con la loro condanna alla pena capitale.
Gli elementi ritenuti più pericolosi per il potere sovietico furono uccisi o internati: nel 1930, secondo i dati ufficiali dell’OGPU (la polizia politica), 20 000 kulak furono fucilati, mentre altri 114 000 finirono in lager. Quanto agli altri contadini, sempre secondo i dati ufficiali della OGPU, tra il 1930 e il 1931 furono deportate in zone periferiche e semidesertiche 381 173 famiglie di kulak, pari a 1 803 392 individui. La maggior parte di loro perì di stenti, a causa della mancanza di generi alimentari, case, attrezzi da lavoro, combustibile.
I bambini, naturalmente furono i soggetti più esposti alla mortalità, che all’inizio del 1932, negli insediamenti speciali, era del 10% al mese. Come ha scritto lo storico inglese Edward Carr, «le autorità avevano dalla loro la forza, e ne fecero un uso brutale e spietato. I contadini – e non soltanto i kulaki – furono vittime di qualcosa che aveva tutta l’aria di una pura e semplice aggressione. Quella che era stata pensata come una grande conquista terminò in una delle grandi tragedie destinate a lasciare una macchia sulla storia sovietica».
Un carro trainato da buoi, immagine della Russia tradizionale che Stalin, condotto in effige all'epoca del raccolto, intente sconvolgere con la collettivizzazione.
I contadini che non vennero deportati come kulaki furono obbligati a riunirsi in grandi aziende agricole collettive chiamate kolchozy: unità produttive di vaste dimensioni, comprendenti spesso diverse migliaia di ettari e controllate dallo stato. La maggior parte dei contadini rifiutò questa rivoluzione dall’alto introdotta nelle campagne, ma le autorità fecero sistematicamente ricorso alla forza e alla deportazione in campo di lavoro nei confronti di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si rifiutavano di entrare nelle fattorie collettive. Nei primi anni Trenta si verificò in URSS un durissimo scontro tra stato e contadini. Secondo i dati dell’OGPU (la polizia politica), nei primi quattro mesi del 1932 si verificarono 576 episodi di rivolta nelle campagne; tra maggio e giugno, esplosero altre 949 insurrezioni di massa.
Il processo di collettivizzazione delle campagne fu comunque portato avanti, ma poi ebbe, nei primi anni, effetti disastrosi sull’economia sovietica.
Nel 1932, la produzione agricola era calata dell’11,4% rispetto al 1929, mentre il numero degli animali da carne era diminuito, come minimo, del 50%, perché molti contadini preferirono abbattere il proprio bestiame, piuttosto che consegnarlo allo stato.
Attivisti del partito comunista sovietico impegnati a requisire derrate alimentari nascoste dagli "sfruttatori agricoli", uno dei termini con i quali la propaganda staliniana definiva i kulaki.
Per esprimere la propria rabbia e la propria protesta, la maggior parte degli agricoltori costretti alla collettivizzazione negli anni Trenta usò soprattutto l’arma della resistenza passiva, procedendo all’abbattimento dei cavalli, al fine di rendere più complicati i processi di aratura e di semina dei campi: nel 1932, la campagna di semina primaverile nel Caucaso del nord si prolungò per 35-40 giorni, invece che la solita settimana. In Ucraina, al 15 maggio 1932 erano stati seminati solo 8 milioni di ettari di terreno, a fronte dei 15, 9 del 1930 e dei 12, 3 del 1931.
La situazione precipitò nel 1933. Il raccolto dell’anno precedente, infatti, si rivelò molto inferiore alle aspettative, a causa del boicottaggio messo in opera da moltissimi lavoratori dei kolkhoz. Per dimostrare agli agricoltori che lo stato non sarebbe arretrato di un passo, le autorità ordinarono comunque di procedere alla requisizione delle quote fissate, a costo di far patire la fame ai contadini. In pratica, come nel processo di deportazione dei kulak, anche in questa circostanza il governo inviò nei villaggi squadre di attivisti, incaricati di sequestrare tutto il grano che riuscivano a trovare: i contadini, infatti, erano accusati di nascondere gran parte dei cereali che producevano, cioè di sabotare consapevolmente la costruzione del socialismo.
Questo insieme di comportamenti delle autorità trasformò un’ordinaria situazione di penuria alimentare in un micidiale sterminio per fame (holodomor, in lingua ucraina), che provocò almeno 5 milioni di morti. La tragedia investì soprattutto le regioni dell’Ucraina e del Caucaso settentrionale, i cui abitanti si erano opposti in modo particolarmente energico al processo di collettivizzazione.
L'ingresso al campo di transito del campo a destinazione speciale delle Solovki, Russia, 1927-1928.
La Russia comunista vide un numero enorme di individui deportati per ragioni politiche in regioni disabitate o periferiche, nei quali vennero istituiti appositi campi di concentramento. Il primo lager destinato agli oppositori politici sorse nel 1923, nelle isole Solovki, nel mar Bianco, al largo di Arcangelo. Prima di essere condotti sulle isole, i deportati erano concentrati nel campo di transito di Kem, sulla costa. Una volta arrivati a destinazione, erano invece alloggiati negli edifici di un antico monastero edificato nel XVI secolo. All’interno del monastero, la densità abitativa, era insostenibile: nell’inverno 1929-1930, le pessime condizioni igieniche provocarono una grande epidemia di tifo che decimò i detenuti. Tuttavia, le condizioni di vita di coloro che erano inviati nel bosco, in campi senza nome, a tagliare legname, erano molto peggiori di quelle dei deportati che vivevano all’interno del monastero. Gli alloggi di coloro che vivevano nei sottocampi improvvisati erano a dir poco primitivi: si trattava di buche o trincee, scavate spesso con le mani nude (cioè senza vanghe o altri attrezzi) in terreni paludosi e acquitrinosi. La mortalità più elevata si registrò proprio in tali luoghi improvvisati. Altri lavori molto duri furono quello di costruzione e manutenzione di una piccola ferrovia a binario unico e a scartamento ridotto (entrata in funzione il 13 agosto 1927) e quello nelle torbiere. Qui si lavorava con l’acqua fino alle ginocchia o fino alla cintola, per estrarre la torba (la norma fissata era di almeno 12 metri cubi giornalieri a persona), che poi veniva messa ad essiccare.
Lavori pesanti eseguiti con mezzi primitivi dai deportati sovietici impegnati nella costruzione del Canale del Mar Bianco.
All’inizio degli anni Trenta, il durissimo scontro sociale in atto nelle campagne fece aumentare in modo esponenziale il numero dei detenuti, e quindi dei campi. Nel 1930, per gestire una struttura che si faceva sempre più ramificata e complessa, fu creato un nuovo apposito ente, la Direzione Centrale dei lager (Glavnoe Upravlenie Lagerej, abbreviato in GULag). Nel 1939, all’interno del sistema concentrazionario sovietico (il cosiddetto GULag) erano rinchiusi 1 930 000 detenuti. Inoltre, in concomitanza con la svolta impressa da Stalin all’economia sovietica, si decise di impiegare la manodopera dei campi per fini produttivi. Fin dal 1923, i detenuti avevano sempre lavorato all’interno dei lager. In epoca staliniana, però, il lavoro schiavo dei detenuti ebbe un ruolo determinante nel formidabile processo di crescita economica che si verificò in URSS, nel corso degli anni Trenta. Il loro impiego divenne sistematico, metodico e, al limite, spietato, in quanto i risultati da conseguire contavano molto di più della vita e della dignità umana di coloro che dovevano contribuire a raggiungerli, con i loro sforzi e la loro fatica.
Deportati sovietici impegnati al taglio della roccia e foratura per posizionare le cariche esplosive, durante la costruzione del Canale del Mar Bianco.
Per costringere a lavorare masse sempre più ingenti di prigionieri, negli anni Trenta fu introdotto il cosiddetto sistema delle razioni differenziate. In pratica, fu istituita una micidiale correlazione tra mole di lavoro effettivamente svolta nell’arco di una giornata e quantità di pane ricevuta. A ciascun detenuto (o, in alternativa, ad una squadra) era assegnato un dato obiettivo lavorativo da raggiungere: ad esempio, veniva fissato un determinato numero di metri cubi di tronchi da tagliare, da accatastare o da caricare. Se tale norma era raggiunta, alla razione dei detenuti era aggiunto un corrispondente quantitativo di pane. Diversamente, il detenuto doveva accontentarsi della misera razione-base di pane, e della zuppa, il cui valore nutritivo era spesso un fatto casuale: come scrive V. Salamov, «il mestolo del distributore che pesca soltanto brodaglia (praticamente acqua), può ridurre le qualità nutritive del companatico praticamente a zero».
Nei primi anni Trenta, per chi svolgeva lavori fisici pesanti era fissata una razione giornaliera di un chilo di pane. Per chi adempiva la norma giornaliera al 100% c’erano altri 300 grammi di supplemento. Tuttavia, i vecchi detenuti avevano imparato a loro spese una semplice massima di saggezza concentrazionaria: «Non ti ammazza la razione piccola, ma quella grande!». Andare alla ricerca della razione supplementare, infatti, richiedeva spesso sforzi eccessivi, che alla fine esaurivano del tutto le forze e non erano per nulla compensate dalla quantità extra ricevuta.
Detenuti impegnati nella costruzione del canale Mar Bianco-Mar Baltico.I detenuti dovevano estrarre tre metri cubi di terra e di pietre dal letto del canale per rispettare la norma giornaliera, in caso contrario, le razioni di cibo venivano diminuite.
Il primo grande progetto che vide l’uso massiccio di manodopera tratta dai lager fu il canale destinato ad unire il mar Bianco al Baltico (chiamato in russo Belomorkanal). L’idea di un canale nell’estremo nord della Russia europea va attribuita direttamente a Stalin, che oltre tutto fissò con precisione anche i tempi di realizzazione: venti mesi al massimo. In questo arco temporale così compresso, i detenuti furono obbligati a scavare (nel terreno roccioso, o gelato) per più di 200 km, nonché a costruire 5 dighe e 19 chiuse. La decisione fu presa nel febbraio 1931; in settembre, iniziarono i lavori. Nell’agosto 1933, il canale fu completato e ufficialmente inaugurato da Stalin, con un viaggio in battello. Per costruire il canale, vennero trasferiti moltissimi detenuti dalle Solovki (che, in pratica, si trasformarono in un semplice carcere di sicurezza) e fu organizzato un vasto campo di lavoro correzionale. Denominato Belbaltlag, vide impegnati complessivamente 170 000 detenuti, 25 000 dei quali morirono durante i lavori di costruzione.
La costruzione del Belomorkanal fu caratterizzata da una quasi totale assenza di tecnologia. Tutti i lavori, anche i più duri, impegnativi e faticosi, furono condotti senza macchine, con attrezzature quanto mai primitive (rozze pale, picconi, mazze, vanghe e carriole di legno...) o addirittura a mani nude. Per questo, fu necessario concedere premi e incentivi di vario tipo agli operai che, malgrado le difficoltà, riuscivano comunque a far procedere il lavoro. Ai più laboriosi, vennero concesse razioni alimentari pienamente soddisfacenti e persino promessa un’abbreviazione della pena: per ogni tre giorni di lavoro in cui raggiungeva la norma che gli era stata assegnata, il detenuto poteva riscattare un giorno di pena. Quando il canale fu completato, vennero in effetti liberati 12 484 prigionieri.
Detenuti lavorano a una miniera aurifera, 1943.
Nel novembre 1931, una risoluzione del Comitato centrale stanziò 20 milioni di rubli per la creazione del Dal’stroj, un’enorme azienda di stato incaricata di sfruttare le risorse minerarie della regione del fiume Kolyma (nella Siberia nord-orientale). Una spedizione geologica inviata là nel 1928, infatti, aveva scoperto enormi giacimenti d’oro. Nel 1941, il Dal’stroj controllava un’area vastissima: un territorio di 2 266 000 chilometri quadrati; nel 1951, tale territorio si sarebbe ulteriormente ampliato e avrebbe toccato i 3 000 000 di chilometri quadrati. Dal 1932 al 1939, la produzione di oro passò da 276 Kg a 48 tonnellate.
La regione della Kolyma, però, era molto difficile da raggiungere.
I prigionieri arrivavano in treno a Vladivostok, e poi – in nave – erano condotti al porto di Magadan, che dovette essere costruito dai detenuti stessi, insieme a tutte le altre infrastrutture indispensabili (ferrovie, strade, ponti...). Infine, dalla città di Magadan, i deportati raggiungevano i vari centri minerari nell’interno.
A Kolyma (ancor più che in altre regioni siberiane) le condizioni climatiche erano terribili, per non dire estreme, in quanto la temperatura invernale può scendere fino a –40° o addirittura –50°. Malgrado ciò, nel 1939, a Kolyma erano costretti a lavorare 138 000 deportati, divenuti 190 000 nel 1940.
Manifesto che rappresenta Stalin come il "padre del comunismo", dietro di lui una folla di persone lo segue con entusiasmo.
Alcuni dei gravi crimini compiuti in URSS in età staliniana ebbero una connotazione nazionale decisamente più marcata, rispetto alla liquidazione dei kulaki o alle deportazioni effettuate per ragioni politiche.
Le motivazioni etniche si fusero e si intrecciarono con quelle politiche e/o sociali in tutti quei casi in cui il dittatore si convinse che, in caso di conflitto con una potenza straniera, una minoranza nazionale presente sul territorio sovietico avrebbe costituito una specie di quinta colonna interna ostile. Un ordine emanato personalmente da Stalin il 20 luglio 1937, ad esempio, recitava: «TUTTI i tedeschi che lavorano nelle nostre fabbriche militari e chimiche, nelle centrali elettriche e nei cantieri delle grandi opere in TUTTE le regioni debbono essere TUTTI arrestati». Furono circa 72 000 i cittadini sovietici di origine tedesca arrestati durante il grande terrore degli anni 1937-1938; un prezzo ancora più alto, però, fu pagato dai polacchi (in Ucraina e in Bielorussia), con 120 000 arresti. Nel 1944, furono invece accusati di collaborazionismo con i nazisti i tatari della Crimea: 200 000 individui furono deportati. La maggior parte perì durante il viaggio; sopravvisse solo una piccola minoranza.
Stalin
Le deportazioni operate da Stalin
Novecento: il tempo degli spostamenti coatti
Attivisti del partito comunista sovietico
Deportati ai lavori pesanti
Stalin "padre del comunismo"