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CorpoIl Duce passa per controllare i risultati della campagna demografica promossa dal fascismo.
Nel programma di San Sepolcro, presentato pubblicamente da Mussolini il 23 marzo 1919, insieme ad altre rivendicazioni di evidente matrice socialista spiccava pure la richiesta del suffragio femminile. Questa disponibilità del movimento fascista delle origini a valorizzare le donne si comprende non appena si ricorda che i Fasci, negli anni 1919-1921, avevano un carattere ambivalente, al tempo stesso nazionalista e socialista (o meglio, antiborghese) e volevano presentarsi come una forza moderna, capace di imprimere una spinta dinamica alla società italiana.
Tuttavia, una volta conquistato il potere, Mussolini iniziò ben presto a imbrigliare e frenare tutte le spinte eversive e gli elementi trasgressivi che avevano caratterizzato il movimento fascista dei primi anni. Nel campo delle relazioni sessuali, ciò volle dire l’abbandono di ogni comportamento che apparisse in contrasto con il rispettabile modello borghese e con la tradizionale morale cattolica.
Scritta che indica il programma fascista di dare una casa a tutti.
Fin dal 1927, Mussolini lanciò la cosiddetta battaglia demografica, che nasceva da un’elementare constatazione: in tutto il paese, nelle famiglie si stava affermando con forza la tendenza a diminuire il numero di figli.
Mentre negli anni Ottanta dell’Ottocento il tasso di natalità italiano era di 39 nati vivi per mille abitanti, negli anni 1921-25 il livello delle nascite era sceso a 29,9 per mille. Agli occhi di Mussolini e, più in generale, dei nazionalisti, tale orientamento era estremamente pericoloso per il futuro della stirpe italiana, che i più pessimisti ritenevano vicina all'estinzione. Tralasciando il fatto che l’Italia era stata, per decenni, terra di emigranti, e che il flusso era cessato solo perché gli Stati Uniti si rifiutavano di accogliere altri italiani poveri (nel 1927, ne furono ammessi solo 4000), l’opinione più radicata negli ambienti fascisti era quella secondo cui lo sciopero delle culle non era dettato da motivi economici, bensì da carenze morali, da egoismo e da mancanza di virtù civiche: in una parola, dal rifiuto di contribuire allo sforzo comune, che avrebbe trasformato l’Italia in grande potenza.
Organizzazione degli aiuti da parte dell’Opera Nazionale Maternità Infanzia.
Fra le numerose misure attivate per rilanciare l’incremento demografico, deve essere ricordata, innanzi tutto, la cosiddetta tassa sui celibi. Approvata il 19 dicembre 1926, essa colpiva tutti gli scapoli fra i ventisei e i sessantacinque anni, in misura inversamente proporzionale rispetto all'età.
Il celibe, insomma, era considerato una specie di disertore, che non compiva il proprio dovere nei confronti del popolo italiano e della grandezza nazionale, la quale risultava danneggiata dal suo rifiuto di procreare. A maggior ragione, fu proibita la vendita degli anticoncezionali, mentre l’aborto fu solennemente condannato come un delitto «contro la integrità e la sanità della stirpe», nel nuovo codice penale approvato il 19 ottobre 1930.
Salerno, 1933: uno scatto durante la decima giornata della madre e del fanciullo. Per il regime compito esclusivo della donna era quello di dare figli alla patria.
Nel 1933, il 24 dicembre, fu celebrata per la prima volta la Giornata della madre e del fanciullo, creata al fine di rendere onore alle madri più prolifiche. Le 92 donne premiate, tutte insieme avevano fatto 1380 figli! Comunque, non pare che lo sforzo fascista per rilanciare l'incremento demografico abbia sortito grandi successi: negli anni 1936-1940, il tasso di natalità scese ulteriormente, toccando il livello nazionale di 23,4 nati vive per mille abitanti. Sotto questo profilo, l'Italia si stava adeguando agli altri paesi industrializzati, come emerge dal fatto che i tassi di natalità dei grandi centri urbani del Nord (19,8 per mille) erano notevolmente più bassi rispetto alla images nazionale appena citata. Non a caso, nella propaganda di regime, la città fu dipinta a tinte sempre più cupe, fino ad essere definita luogo di ogni male, mostro, palude, contrapposta ad una campagna ampiamente idealizzata, i cui abitanti – diceva la stampa fascista – erano moralmente più sani, consapevoli dei doveri nazionali, e quindi più prolifici.
Gruppo di donne a un corso per puericultrici. Si voleva limitare l’accesso femminile al lavoro, relegando la donna al ruolo di madre, “per l’incremento della nostra antica ma sempre giovane stirpe”.
L'insistenza sulla necessità di procreare rilanciò una concezione quanto mai tradizionale della donna, concepita prima di tutto come moglie e come madre. Secondo la concezione fascista, solo l’uomo avrebbe dovuto lavorare, e proprio la crescente presenza delle donne nelle fabbriche e negli uffici fu considerata la principale causa del calo demografico.
Negli anni Trenta, quando la grande crisi economica internazionale provocò un pesante aumento della disoccupazione maschile, il regime fascista prese una serie di provvedimenti per limitare il più possibile il lavoro delle donne; fra queste misure, la più drastica fu il decreto del 5 settembre 1938, che vietò una presenza femminile negli uffici (pubblici e privati) superiore al 10% del totale dei lavoratori impiegati.
Madri, bambini e balie ai giardini pubblici
Nel complesso, lo sforzo fascista di riportare le donne italiane ai loro ruoli più tradizionali fallì completamente. Un sondaggio realizzato a Roma nel 1937 rivelò che le ragazze iscritte agli istituti magistrali avrebbero desiderato un lavoro extra-domestico e rifiutavano di esaurire nella maternità i loro progetti di vita.
Le ragazze italiane erano dunque molto lontane dall’ideale femminile perseguito dal fascismo. Paradossalmente, a questo risultato aveva in parte contribuito il fascismo stesso, che aveva lanciato alle italiane delle nuove generazioni un messaggio decisamente contraddittorio. Da un lato, esse erano invitate fin da piccole a prendere come esempio Rosa Maltoni (la madre del Duce, morta nel 1905), donna all’antica disposta a realizzarsi completamente nella maternità. Nello stesso tempo, tuttavia, alle giovani furono offerte varie occasioni di socializzazione, che offrirono loro inaspettate e inedite occasioni di libertà.
Un gruppo di "Giovani italiane" partecipano a un saggio ginnico nel Parco della Farnesina a Roma, fotografia del 1939.
Negli anni Trenta, l’orizzonte di una ragazza molto raramente era più largo di quello familiare. Il regime, al contrario, creò per le giovani donne nuovi spazi che – pur essendo rigidamente inseriti nel progetto totalitario di condizionare in senso fascista le nuove generazioni – comunque rompevano con la tradizione, visto che le ragazze, per la prima volta, si trovarono a fronteggiare lontane dai genitori esperienze come gli esercizi ginnici di gruppo, le parate e le adunanze di massa, a Roma o in altre città, diverse da quella di abituale residenza. Che una giovane (senza nessuno della famiglia presente come accompagnatore) viaggiasse in treno da sola, o insieme ad altre ragazze, era per l’epoca qualcosa di assolutamente nuovo e, secondo l’opinione di molti benpensanti, di inammissibile, di sconveniente, di scandaloso. In molte ragazze, al contrario, quelle esperienze generarono una nuova fiducia in se stesse, uno straordinario desiderio di libertà e di indipendenza, che il regime mise in moto, malgrado l’innegabile contrasto con l’immagine della donna passiva e remissiva che altre componenti della propaganda di regime cercavano di trasmettere.
La campagna demografica fascista
Moglie e madre: la donna secondo il fascismo
I regimi totalitari di fronte alla questione femminile
La campagna demografica fascista
Opera Nazionale Maternità Infanzia
Giornata della madre e del fanciullo
Saggio ginnico delle Giovani italiane