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CorpoTheodor Herzl, fondatore dello stato d'Israele, nel suo studio.
La diaspora (= dispersione) degli ebrei fuori dalla regione palestinese risale al V secolo a.C., allorché gruppi di giudei si stabilirono in Mesopotamia e in Egitto. In seguito, l’unificazione politica dell’intero bacino del Mediterraneo da parte di Roma facilitò l’ulteriore diffusione delle comunità ebraiche, al punto che nel primo secolo d.C. solo 500 000 ebrei vivevano in Giudea, su una popolazione ebraica complessiva di 4-5 milioni, nell’intero impero romano.
La conversione di Costantino e il trionfo del cristianesimo come religione di Stato diedero inizio ad una lunga fase di ostilità e discriminazione, che trovò parziale attenuazione solo con la Rivoluzione francese: per la prima volta, gli ebrei divennero cittadini a pieno titolo, senza alcuna penalizzazione legata al loro credo. In realtà, l’odio contro gli ebrei non diminuì e anzi assunse coloriture nuove, di tipo razzista. All’inizio degli anni Novanta dell’800, profondamente colpito dall’ennesima ondata di antisemitismo che si stava scatenando sugli ebrei d’Europa (dall’arretrata Russia fino alla Francia democratica e repubblicana), lo scrittore austro-ungarico Theodor Herzl, che collaborava ad uno dei più prestigiosi quotidiani viennesi, lanciò l’idea di costituire uno stato ebraico. Nel 1896, pertanto, Herzl pubblicò Lo stato ebraico, un libretto di un centinaio di pagine che, oltre a presentare l’idea in sé, faceva anche numerose proposte di tipo pratico circa le modalità di realizzazione dell’idea stessa.
Un gruppo di ebrei, su una nave diretta in Palestina, si prepara alla preghiera, dopo aver posto un manto sulle spalle.
Theodor Herzl, il fondatore del movimento sionista, determinato a costituire uno stato ebraico in Palestina, era un ebreo completamente assimilato, cioè privo di ogni legame con la religione, la lingua e la cultura dei suoi avi. Dopo aver constatato con preoccupazione che l’antisemitismo non pareva affatto un retaggio esclusivo dell’arretrato e reazionario impero zarista, bensì trovava un numero sempre più elevato di adesioni anche in stati moderni e industrializzati come la Francia e la Germania, giunse alla conclusione che l’odio verso gli ebrei era inestirpabile presso le popolazioni europee; gli ebrei, secondo il suo giudizio, non avrebbero mai potuto vivere in pace: neppure la più completa assimilazione avrebbe permesso loro di risedere, in Europa, senza essere disprezzati e periodicamente perseguitati. Così, Herzl lanciò la sua proposta di costruire uno stato in cui gli ebrei avrebbero dovuto trasferirsi in massa; cessando di essere una ristretta minoranza in balia degli umori degli altri popoli, essi avrebbero finalmente raggiunto la sicurezza materiale e la rispettabilità, di cui fino ad allora erano stati privati.
Un gruppo di alunni di una scuola elementare ebraica in Bulgaria, poco prima della loro immigrazione verso la nuova costituzione dello stato d'Israele. Fotografia del 1948.
Secondo l’intenzione originaria di Herzl, alcuni dei più potenti banchieri ebrei avrebbero potuto offrire al sultano il risanamento delle dissestate finanze dell’impero turco, in cambio della possibilità di creare in Palestina uno stato sovrano ebraico. Tuttavia, di fronte al disinteresse mostrato dai finanzieri per il suo progetto - che all’opposto, soprattutto nell’Europa orientale, aveva suscitato l’entusiasmo e l’adesione appassionata delle grandi masse ebraiche - nel 1897 fu convocato a Basilea il primo Congresso sionista, con l’obiettivo di esplorare tutte le vie possibili in vista della creazione dello stato ebraico. A partire dai primi anni del Novecento, il movimento sionista prese ad acquistare terre in Palestina, soprattutto dai grandi proprietari arabi assenteisti, residenti a Beirut o a Damasco; nel medesimo tempo, l’immigrazione ebraica in Palestina andò crescendo costantemente: a fronte di circa 24 000 ebrei presenti nel 1882, la consistenza dell’insediamento ebraico aveva toccato, nel 1914, le 80 000 unità. A questa data, però, le prospettive per la trasformazione di questa presenza in un vero e proprio stato parevano quanto mai remote, visto che il governo turco non aveva la minima intenzione di cedere a nessuno, e tanto meno ai sionisti, la propria sovranità sul territorio palestinese.
Pausa pranzo durante la raccolta della frutta presso il kibbutz Ein Harod nella piana di Yzre’el. Una buona parte della frutta era destinata all’esportazione, che rappresentava un’importante fonte di reddito per gli abitanti de kibbutz.
Negli anni precedenti la guerra mondiale, si verificarono i primi attriti tra immigrati ebrei e arabi di Palestina; i nuovi arrivati, infatti, coltivavano direttamente e personalmente le terre che il Fondo Nazionale Ebraico aveva acquistato dai latifondisti arabi, dando vita a fattorie gestite in modo comunitario e, di fatto, socialista, dette kibbutzim. Per un gran numero di contadini palestinesi, ciò significò disoccupazione e, di riflesso, rancore e astio verso l’insediamento ebraico.
La guerra mondiale impresse una brusca accelerazione all’intero processo; il 2 novembre 1917, infatti, tramite il suo ministro degli esteri, Arthur James Balfour, il governo inglese pronunciò una dichiarazione ufficiale finalizzata a far sì che gli ebrei di tutto il mondo (tendenzialmente ostili alla Russia, a causa dei sentimenti antisemiti profondamente radicati in quella terra) collaborassero attivamente alla vittoria degli Alleati.
Fiera delle Primizie presso il kibbutz Ein Harod, per cui accorrevano coloni da tutti gli insediamenti della valle. Sullo sfondo i monti di Gilboa, che cinque anni più tardi sarebbero stati ricoperti da fitti boschi grazie all’opera dei coloni.
La dichiarazione Balfour, emessa dal governo inglese nel novembre 1917, era un capolavoro di ambiguità. Da un lato, infatti, non si accennava minimamente alla possibilità di far nascere uno stato sovrano ebraico e si proclamava che in alcun modo i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche di Palestina avrebbero dovuto essere danneggiati. Eppure, al di là di queste riserve, il governo britannico dichiarava apertamente di essere favorevole alla creazione di una sede nazionale (national home) ebraica in Palestina. Nello stesso tempo, il governo inglese si accordò con quello francese, al fine di una spartizione del Medio Oriente, una volta concluso il conflitto. L’accordo raggiunto dai negoziatori delle due parti (Mark Sykes per l’Inghilterra e Georges Picot per la Francia) non lasciava alcuno spazio né ad uno Stato ebraico né ad un vasto Stato nazionale arabo indipendente: al contrario, prevedeva che Siria e Libano passassero sotto controllo francese, Palestina e Mesopotamia sotto influenza inglese. A guerra finita, quando la Conferenza di San Remo dell’aprile 1920 incominciò a definire la nuova geografia politica della regione, fu questa logica imperialistica a prevalere, senza che le aspirazioni arabe fossero tenute nella minima considerazione; non a caso, gli arabi definirono il 1920 come l’anno della catastrofe, quello in cui videro infranti tutti i loro sogni di autonomia e di indipendenza.
I nuovi immigrati in Palestina si dedicano soprattutto al lavoro nei campi, creando un sistema di villaggi agricoli, i kibbutz.
Nel 1920, i territori arabi sottoposti al controllo inglese o francese non erano delle vere e proprie colonie; formalmente, l’attività di amministrazione europea era chiamata mandato: in teoria, Francia e Gran Bretagna agivano per conto della Società delle Nazioni (il nuovo organismo internazionale sorto, dopo la fine della guerra, al fine di favorire la collaborazione fra i popoli e le nazioni) e avrebbero dovuto creare tutte le condizioni necessarie a promuovere, in futuro, l'indipendenza dei popoli sottoposti al mandato. In pratica, si trattava di una pura finzione giuridica, non priva di ipocrisia e incapace di mascherare che il Medio Oriente era sottomesso a dominazione occidentale. «Anziché l’indipendenza e l’unità, si offriva agli arabi la divisione, la sottomissione al controllo delle potenze mandatarie. La delusione, la frustrazione, l’indignazione furono enormi: i loro effetti durarono a lungo e si può dire che durino tuttora. È difficile capire qualcosa della situazione politica di questa regione, se non si tiene conto di questo fondo di amarezza che domina l’intero quadro» (M. Rodinson).
Alcuni coloni del kibbutz Ein Harod nella piana di Yzere’el, a cavallo, accolgono i nuovi arrivati dalla Germania nella vicina stazione ferroviaria, febbraio 1934.
Dopo la sconfitta dell’impero turco e l’istituzione dei mandati, l’ostilità araba nei confronti del sionismo si caricò di valenze politiche. A partire dagli anni Venti, il sionismo non fu più avversato solo per i problemi sociali ed economici che generava in Palestina, bensì anche e soprattutto per la protezione che esso aveva ricevuto da parte delle grandi potenze colonialiste.
L’insediamento ebraico e, più tardi, la nascita dello Stato di Israele furono percepiti dagli arabi, per tutto il ’900, come gesti di arroganza da parte dell’Occidente, come imposizioni intollerabili, come soprusi da rifiutare categoricamente in nome del diritto di ogni popolo a decidere autonomamente della propria vita e del proprio destino.
Soldati in kilt del reggimento scozzese dei Cameron Highlanders presidiano la Cittadella, all’ingresso della città vecchia di Gerusalemme, 10 giugno 1936, agli inizi della Grande rivolta araba, nel periodo del Mandato britannico della Palestina.
Nel 1930, l’insediamento sionista in Palestina contava appena 4000 individui. Tuttavia, con l’ascesa di Hitler al potere in Germania, nel 1933, l’immigrazione ebraica subì una brusca impennata: nel solo 1935, dall’Europa arrivarono 62 000 persone. Negli anni 1936-1939, gli arabi di Palestina scatenarono una grande rivolta al fine di ottenere dalle autorità britanniche il blocco dell’immigrazione ebraica nel paese. Per placare la ribellione, nel maggio del 1939 gli inglesi pubblicarono un Libro Bianco, cioè un rapporto sulla situazione palestinese, che fissava per l’immigrazione ebraica un tetto massimo di 75 000 individui in cinque anni. Con un’inversione di tendenza netta e decisa rispetto alla Dichiarazione Balfour, la Gran Bretagna puntava a far sì che la maggioranza degli abitanti della Palestina restasse araba.
La svolta politica britannica fu influenzata dal nuovo scenario politico internazionale; nel 1939, era evidente che una seconda guerra mondiale poteva esplodere da un mese all’altro. Per l’Inghilterra, era essenziale mantenere buoni rapporti con i popoli arabi, i quali invece, dal canto loro, erano fortemente attratti sia dal fascismo che dal nazionalsocialismo; gli avversari degli arabi, dell’Italia e della Germania, del resto, nel 1939 erano gli stessi: l’Inghilterra, la Francia, gli ebrei.
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Gruppo di baracche vicino a Gerusalemme: gli immigrati venivano radunati in campi di raccolta come questo.
Nel corso del conflitto, quasi sei milioni di ebrei europei furono uccisi dai nazisti. Questo terribile evento colpì profondamente la comunità ebraica americana, che comprendeva ben cinque milioni di persone, ma, fino a quel momento, si era mostrata decisamente fredda nei confronti del sionismo.
Nel 1944, il leader sionista David Ben Gurion si rivolse agli ebrei statunitensi, per chiedere aiuto e sostegno in ordine all’abolizione del Libro Bianco del 1939; scosse dall’intensità e dalla violenza dell’antisemitismo nazista, le comunità ebraiche americane si mobilitarono, sostenendo il progetto di uno stato ebraico, che venne fatto proprio anche dal presidente Harry S. Truman. La Gran Bretagna cercò di restare sulle sue posizioni prebelliche; così, ad esempio, rifiutò il permesso di sbarco a migliaia di profughi che, dopo essere scampati ai campi di sterminio, arrivavano via mare in Palestina. Gli ebrei di Palestina, pertanto, ricorsero all’immigrazione illegale e clandestina, alla guerriglia e al terrorismo, compiendo atti clamorosi finalizzati a mettere in imbarazzo il governo inglese e ad obbligarlo ad abbandonare il paese. Infine, nel febbraio del 1947, la Gran Bretagna rimise l’intera questione alle Nazioni Unite.
Un gruppo di ebrei in partenza verso il nuovo stato d’Israele.
La commissione internazionale creata dall’ONU elaborò un progetto di spartizione del territorio palestinese che venne posto in votazione, davanti all’assemblea generale, il 29 novembre 1947 (risoluzione n. 181). A favore del piano votarono 13 delegati su 33, mentre 10 furono gli astenuti. Tra questi ultimi, figurava anche il rappresentante inglese; a favore del progetto, invece, votò il delegato sovietico, in quanto l’URSS valutò l’insieme dell’operazione come un grave colpo inferto al prestigio dell’impero britannico.
Il piano di spartizione elaborato dall’ONU prevedeva la nascita in Palestina di tre entità distinte. Gerusalemme, città santa a tre religioni, avrebbe dovuto essere posta sotto controllo internazionale; sul resto del territorio palestinese, invece, avrebbero dovuto sorgere due stati, uno ebraico e uno arabo.
Il primo, secondo l’ONU, avrebbe dovuto comprendere il 55% della superficie globale e ospitare 500 000 ebrei e 497 000 arabi; nello stato palestinese, invece, avrebbero dovuto vivere 750 000 arabi e 10 000 ebrei.
Lungo i binari di una stazione alcuni ebrei sono in partenza con il loro bagaglio per lo stato d’Israele.
La proposta dell’ONU relativa alla spartizione della Palestina fu accolta dai sionisti, che il 15 maggio 1948 (allo scadere del mandato britannico) proclamarono lo stato di Israele, imimagestamente riconosciuto sia dagli Stati Uniti che dall’Unione Sovietica.
Gli arabi di Palestina e quelli degli stati limitrofi, al contrario, rifiutarono il progetto, per motivazioni simili a quelle del 1920, l’anno in cui avevano visto fallire tutte le proprie aspirazioni. «Per gli arabi, accettare le decisioni dell’ONU equivaleva a una capitolazione senza condizioni davanti a un Diktat europeo, non diverso, sostanzialmente, dalle capitolazioni imposte ai re africani o asiatici nel secolo XIX imagesnte una cannoniera puntata sul loro palazzo… Vista con gli occhi degli arabi, la guerra di Palestina era una lotta contro una nuova usurpazione imperialistica sul territorio di un popolo coloniale» (M. Rodinson).
Partenza di una nave piena di ebrei verso Israele, nell’anno successivo alla costituzione dello Stato, maggio-giugno 1949. Fotografia di Robert Capa, fotografo ebreo.
Nel 1948, nei mesi precedenti la partenza delle truppe britanniche, sionisti e arabi palestinesi avevano già intrapreso una sanguinosa guerriglia finalizzata a controllare i territori da cui gli inglesi, progressivamente, andavano ritirandosi.
Il 15 maggio 1948, intervennero anche gli eserciti regolari degli stati arabi; tuttavia, contrariamente all’aspettativa generale, essi furono pesantemente sconfitti dalle forze israeliane, il cui successo militare alterò profondamente l’intero quadro politico della regione.
Lo stato di Israele, infatti, riuscì a diventare più grande di circa un terzo rispetto alla superficie prevista dalle Nazioni Unite; sul resto del territorio, inoltre, non si creò uno stato arabo palestinese indipendente, visto che la striscia costiera a sud della città di Gaza fu occupata dall’Egitto, mentre l’intera porzione centrale della Palestina (la cosiddetta Cisgiordania) fu annessa da Abd-Allah di Giordania al proprio stato, eretto a regno nel 1946. Quanto a Gerusalemme, al posto dell'autonomia garantita a livello internazionale, si ebbe una vera e propria spartizione: la parte occidentale passò sotto sovranità israeliana, quella orientale fu occupata dalla Giordania.
Beduini transgiordani marciano sulla Palestina, Amman, 1948.
Tra le conseguenze più gravi del conflitto del 1948-1949, dev’essere ricordata la partenza di circa 700 000 arabi palestinesi (la maggior parte dei quali, per il momento, si spostò in Cisgiordania) dal territorio dello stato di Israele.
È difficile individuare un’unica causa che risulti capace di spiegare da sola questo massiccio spostamento di popolazione, in quanto nei vari villaggi hanno agito fattori diversi. Spesso si trattò di una pura e semplice fuga, dettata dalla paura di rimanere nelle zone in cui il conflitto infuriava più violentemente; in altri, casi risultò decisiva la fiducia in una rapida vittoria degli arabi sul nemico sionista: pertanto, case e terre furono abbandonate da famiglie convinte che il ritorno sarebbe stato possibile in tempi molto brevi. In alcune regioni, invece, ha svolto un ruolo importante l’attività terroristica dei gruppi ebraici più violenti e più radicali, fra cui ricordiamo i cosiddetti revisionisti, guidati da Menahem Begin. L’episodio più grave si verificò nella notte tra il 9 e il 10 aprile 1948, a Deir Yassim, dove furono uccisi 250 arabi. Anche i comandanti dell’esercito regolare israeliano espulsero o deportarono numerosi arabi; tuttavia, non pare corretto parlare di un vero e proprio piano, predisposto fin dall’inizio e finalizzato a realizzare la cacciata di tutti i palestinesi.
Immigrati sbarcano in Israele nell’anno successivo alla costituzione dello Stato, Porto di Haifa, 1949.
Durante la guerra del 1948 e dopo la sconfitta del 1949, i paesi arabi espulsero dal loro territorio le comunità ebraiche che da secoli vivevano in quei territori.
Dallo Yemen, con un’operazione aerea denominata Tappeto volante, giunsero 50 000 profughi; altri 100 000 furono invece espulsi dall’Iraq. Dal Marocco giunsero 120 000 persone, dall’Egitto 75 000, dalla Libia 35 000, dalla Tunisia 30 000, dalla Siria 26 000. A questi ebrei sefarditi provenienti dal mondo arabo dobbiamo aggiungere i moltissimi israeliti che scelsero di abbandonare l’Europa (e che, di solito, sono denominati aschenaziti). Non sempre rapporti tra i due gruppi furono armonici e sereni: gli ebrei provenienti dalla Polonia, dalla Germania o dall’Europa occidentale, infatti, spesso erano più ricchi e più colti. Quindi, di fatto occuparono la maggior parte dei centri di potere e costituirono il gruppo dominante del Paese fino agli anni Settanta.
Estrazione di sali minerali ad Ashdot Ya’akov, sulle rive del Giordano a sud del lago Tiberiade.
Nel luglio del 1950, il presidente del Consiglio David Ben Gurion sottopose al parlamento la cosiddetta Legge del Ritorno: in virtù di essa, qualunque ebreo che emigra in Israele ha diritto alla cittadinanza israeliana, anche se non rinuncia a quella del paese di provenienza. Nei primi anni di vita del nuovo stato, l’afflusso fu impressionante: complessivamente, un paese di circa 750 000 abitanti vide arrivare 687 000 immigrati.
Alla fine del 1953, la popolazione dello Stato di Israele era di 1 484 000 abitanti (200 000 dei quali arabi palestinesi, cristiani o musulmani, che erano rimasti di propria volontà e non erano stati cacciati). Di coloro che erano arrivati dall’Europa, circa 200 000 potevano essere considerati, a vario titolo, sopravvissuti ai campi nazisti e, più in generale, alla Shoah. Almeno fino al 1961 (l’anno del processo tenutosi a Gerusalemme contro Adolf Eichmann) la loro posizione sociale fu difficile e imbarazzante. Il nuovo Stato non amava ricordare le vittime del nazismo, accusate spesso di passività e di scarsa volontà combattiva; di fatto, l’unico episodio veramente commemorato era l’insurrezione del ghetto di Varsavia nella primavera del 1943.
Theodor Herzl
L'emigrazione ebraica verso Israele
Il miraggio del benessere: i flussi migratori nel Novecento e nel Duemila
Partenza per lo stato d’Israele