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CorpoGandhi (primo a destra inginocchiato) con i barellieri del Corpo di soccorso indiano durante la guerra anglo-boera, Sudafrica, 1899-1900.
Nato nel 1869, Mohandas Karamchand Gandhi studiò diritto in Inghilterra e riuscì a diventare avvocato. Nel 1893, fu chiamato in Sudafrica da una ditta indiana, che lo aveva assunto come proprio legale; stando a quanto Gandhi stesso racconta nella propria autobiografia, l’esperienza decisiva della sua vita si verificò sul treno che, dal porto di Durban, doveva portarlo a Pretoria: per quanto regolarmente munito di biglietto, a causa della sua pelle scura venne dapprima espulso dalla prima classe, e poi scaricato a forza dalla vettura. Consapevole di aver subìto un torto e un abuso, il giovane avvocato iniziò un’azione legale nei confronti della compagnia ferroviaria; nello stesso tempo, si prese a cuore la condizione di sfruttamento e discriminazione in cui vivevano circa 100 000 immigrati indiani, trattati come veri e propri servi dai loro padroni bianchi. Nei vent’anni della sua permanenza in Sudafrica (dal 1893 al 1914), Gandhi elaborò e sperimentò i concetti fondamentali della dottrina e della tattica che poi, a partire dal 1920, avrebbe usato in India.
Mohandas Karamchand Gandhi, qui fotografato in compagnia delle due pronipoti orfane da lui allevate.
Presupposto fondamentale della concezione filosofica di Gandhi è il concetto di ahimsa, espressione che - a un primo elementare livello - potrebbe essere reso con non violenza; in realtà, il concetto è molto più ricco, e Gandhi stesso, più volte, per renderlo fa ricorso al termine cristiano amore. In pratica, Gandhi vuole da un lato affermare che ogni essere vivente (compresi gli animali: Gandhi, infatti, era vegetariano) deve essere rispettato e non deve essere oggetto di alcuna violenza; in positivo, invece, egli sottolinea che ogni individuo dev’essere oggetto d’amore, da parte del credente che mette in pratica il principio dell’ahimsa. Fissato questo principio di base, Gandhi si pone poi il problema della risposta che l’uomo deve dare al male, o meglio alle situazioni in cui una persona o un gruppo vengono fatte oggetto di un’ingiustizia da parte di un governo o di uno stato; esclusa la risposta corrente - che consiste nella guerra - Gandhi elaborò il concetto di satyagraha (= forza della verità), che consiste in una tecnica di lotta basata sul radicale rifiuto della violenza. A più riprese, Gandhi affermò che il satyagraha esige, da parte del militante che lo pratica, le stesse precise virtù richieste tradizionalmente al soldato: coraggio, determinazione, disponibilità a soffrire e, al limite, a sacrificare la propria vita per un ideale.
Henri Cartier Bresson, "Gandhi, sostenuto dagli assistenti, fa un pellegrinaggio a Nizm U Din, tempio musulmano", 1944.
Il nocciolo della strategia politica di Gandhi (denominata satyagraha) era la resistenza civile, consistente nella disobbedienza di massa, da parte di migliaia di militanti, alle leggi ingiuste emanate dal potere oppressore. A differenza del criminale, il militante non-violento viola apertamente la legge, cioè provoca e accetta volontariamente la repressione dello stato. Anzi, l’obiettivo della lotta era proprio quello di provocare un numero talmente elevato di arresti da spingere il potere oppressore a tornare sui propri passi, riconoscendo il proprio comportamento errato: «La conversione di una nazione - scrisse Gandhi nel 1930, in uno dei momenti culminanti dello scontro con l’Inghilterra - che consciamente o inconsciamente vive alle spalle di un’altra nazione molto più popolosa, molto più antica e non meno civile di essa è una cosa che merita che si corrano dei rischi. Ho deliberatamente usato la parola conversione. La mia ambizione infatti è esattamente quella di convertire il popolo inglese attraverso la non-violenza, e di far sì che esso comprenda il male che ha fatto all’India. Se il popolo indiano si unirà a me, come credo che farà, le sofferenze che esso affronterà, se l’Inghilterra non muterà al più presto il suo atteggiamento, saranno capaci di toccare i cuori più duri».
Ghandi entra a Downing Street, Londra, per parlare alla pari con le autorità coloniali. È reduce dal trionfo dell'epica marcia del sale, compiuta un anno prima: 24 giorni a piedi fino al mare, fra ali di folla festante, per fare capire al mondo che gli indiani non pagheranno più la tassa del sale.
Gandhi si pose alla guida del movimento nazionalista indiano nel 1920; per prima cosa, egli si preoccupò di riformare il Partito del congresso, trasformando quello che era stato fino ad allora un gruppo ristretto, rappresentativo solo degli indiani più colti o più ricchi, in un grande partito di massa, capace di mobilitare e coinvolgere nella lotta non solo gli abitanti delle città, ma anche i milioni di contadini sparsi nelle campagne e nei villaggi.
L’indipendenza (swaraj) divenne l’obiettivo finale del movimento, che in un primo tempo riuscì a tenere uniti fra loro induisti e musulmani. Il 1 agosto 1920 venne lanciata la prima vasta campagna di lotta non violenta, che aveva il proprio punto di forza nel rifiuto di collaborare con il potere a qualsiasi livello: gli indiani, pertanto, a migliaia abbandonarono i posti che rivestivano nell’apparato amministrativo, oppure si rifiutarono di frequentare le scuole, i tribunali e gli uffici pubblici, paralizzando di fatto il paese. Inoltre, Gandhi esortò anche a boicottare i prodotti d’importazione provenienti dall’Inghilterra e, per danneggiare economicamente l’industria tessile britannica, Gandhi invitò gli indiani a riprendere l’antica pratica della filatura a mano del cotone. L’arcolaio (charkha) divenne così il simbolo della lotta contro la dominazione coloniale, al punto che, stilizzato, sarebbe stato più tardi riprodotto sulla bandiera della Repubblica indiana indipendente. Gandhi diede personalmente l’esempio, dedicando regolarmente una parte della propria giornata alla filatura manuale, e abbandonò l’abbigliamento all’occidentale, servendosi solo di khadi (= tessuto di cotone fabbricato a mano). Tale scelta, che conferì all’immagine di Gandhi una straordinaria semplicità, urtò profondamente le autorità coloniali che dovettero trattare con lui, al punto che Winston Churchill, nel 1931, affermò di essere nauseato dalla vista di «quel fachiro seminudo» che saliva le scale del palazzo di Delhi, per discutere alla pari con il viceré inglese.
Il Mahatma Gandhi durante la marcia del sale contro il governo coloniale inglese, 1930.
All’inizio del 1922, circa 30 000 nazionalisti erano stati arrestati e si trovavano in carcere; il 4 febbraio, tuttavia, a Chauri Chaura una folla inferocita uccise ventidue poliziotti, e tale grave episodio spinse Gandhi a proclamare la fine dello scontro. «In India - scrisse lo stesso Gandhi per difendersi dalle critiche di quanti contestarono la saggezza politica della sua scelta che, in effetti, diede respiro a un’amministrazione coloniale palesemente in difficoltà a gestire la situazione - non c’è ancora quell’atmosfera di sincerità e di non-violenza che sola può giustificare la disobbedienza di massa: disobbedienza civile, assai dolce, umile, saggia, astuta ma affettuosa, mai criminale né brutale». Negli anni seguenti, Gandhi dedicò tutta la propria attività da un lato alla diffusione fra le masse della sua concezione della non-violenza, e dall'altro a difendere i diritti dei cosiddetti intoccabili, cioè di coloro che si trovavano al livello più basso del complesso sistema di caste in cui era stratificata la società indù tradizionale. Nel 1930, Gandhi si sentì pronto per una nuova sfida al governo inglese e, pertanto, lanciò una nuova campagna di non collaborazione e di disobbedienza civile di massa; il simbolo della resistenza divenne il rifiuto di pagare l’imposta sul sale: per dare l’esempio, il 12 marzo lo stesso Gandhi intraprese a piedi una marcia di 380 km, giunse al mare e incominciò a estrarne sale, la cui produzione e vendita erano monopoli governativi.
Gandhi e il suo allievo Nehru. Nel 1948 Nehru assume il potere.
Nel 1945, impossibilitata ulteriormente a conservare il proprio impero coloniale, la Gran Bretagna decise di abbandonare l’India; ma, col passare degli anni, le tensioni fra i vari gruppi religiosi si erano fatte sempre più aspre e violente e nell’agosto del 1946 si verificarono violenti scontri a Calcutta e in altre città. Nel febbraio 1947, il governo inglese dichiarò che, entro l’anno, la dominazione coloniale britannica si sarebbe conclusa; malgrado la netta opposizione di Gandhi, i principali partiti politici indiani (sia induisti, sia musulmani) accettarono l’idea di una divisione del paese in due stati; in pratica, le due zone in cui la maggioranza della popolazione era musulmana (all’estremo ovest, il Punjab; all’estremo est, il Bengala) avrebbero dato vita al Pakistan (= Terra dei puri). Il dominio inglese sull’India cessò il 14 agosto 1947; appena furono rese note le frontiere precise dei due nuovi stati, nel Punjab si verificò una gigantesca ondata di violenze, in quanto musulmani e indù cominciarono a massacrarsi a vicenda, nel tentativo di cancellare la presenza dal proprio territorio della minoranza religiosa rivale. Un bilancio preciso di questa esplosione di fanatismo religioso è impossibile: è possibile che, nel complesso, vi siano stati un milione di morti e dieci milioni di sfollati, cioè profughi musulmani che dall’India fuggirono in Pakistan e viceversa.
Il Samadhi, a Nuova Delhi, la piattaforma di marmo nero dove fu cremato il corpo di Gandhi.
Per fermare la violenza inter-religiosa esplosa in India subito dopo la fine della dominazione britannica, Gandhi intraprese un «digiuno fino alla morte», cioè interruppe ogni forma di alimentazione, dichiarando che si sarebbe lasciato morire se gli scontri non fossero cessati. L’accorato appello alla pace di colui che tutti ormai definivano Mahatma (= Grande anima) e, più in generale, l’affievolirsi delle passioni permisero il ritorno alla normalità all’inizio del 1948. Gli indù estremisti, tuttavia, non perdonarono a Gandhi la sua disponibilità al dialogo con i musulmani: il 30 gennaio 1948, pertanto, egli venne assassinato da un fanatico che, in precedenza, aveva militato in una organizzazione radicale induista. La neonata repubblica indiana trovò per diversi anni un leader forte e autorevole in Jawaharlal Nehru (1889-1964); sebbene fosse stato un fedele discepolo di Gandhi, Nehru era comunque molto diverso dal Mahatma: mentre questi era mosso da profonde motivazioni religiose, Nehru era uno spirito laico, e cercò soprattutto di impedire che la religione condizionasse la politica in qualsiasi maniera. Per affrontare i gravissimi problemi economici del paese, Nehru si ispirò inoltre al socialismo democratico europeo; l’India, pertanto, ebbe a lungo una sorta di economia mista, in cui l’iniziativa privata coesisteva con la pianificazione e l’intervento statale, forte e massiccio sia in settori di importanza vitale per il paese, come l’industria militare e le ferrovie, sia in tutti quegli ambiti che richiedevano investimenti cospicui, ma non promettevano elevati profitti in tempi brevi.
Gandhi in Sudafrica
Gandhi e l’indipendenza dell’India
Carisma e religiosità nel Novecento
Gandhi, sostenuto dagli assistenti