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CorpoProfughi cinesi fuggono dai bombardamenti nipponici.
In Asia orientale, la guerra iniziò due anni prima che i Europa. Nel 1937, infatti, l’esercito giapponese attaccò in forze in tutto il territorio cinese, con l’esplicito obiettivo di conquistarlo integralmente. Pechino cadde l’8 agosto, mentre in ottobre-novembre vennero occupate Shanghai, Nanchino, Canton e tutte le altre principali città industrializzate della regione costiera.
Alla fine del 1938, le truppe nipponiche avevano sottomesso un milione e mezzo di chilometri quadrati, abitati da 170 milioni di cinesi, obbligati a fornire prodotti alimentari e materie prime al paese invasore.
La guerra condotta dai giapponesi in Cina fu dura, feroce: seconda solo alla guerra nazista in Unione Sovietica, per quanto riguarda le sofferenze patite dalla popolazione civile.
Il conflitto contro il Giappone invasore provocò ai cinesi (tra il 1937 e il 1945) la morte di 2 000 000 di militari, il ferimento di 1 700 000 soldati e il decesso di almeno 15 milioni di civili. L’85% di questi cinesi erano poveri contadini, che non morirono per mano diretta del nemico, ma di fame e di stenti.
L’esercito nipponico, infatti, in Cina applicò al massimo livello l’antico precetto bellico giapponese dei tre tutto: «prendi tutto, brucia tutto, uccidi tutto».
Il caccia leggero Mitsubishi A6M della Marina Imperiale Giapponese, solitamente chiamato dagli alleati con il nome "Zero".
Quando l’esercito giapponese entrò nel suo territorio, la Cina non fu assolutamente in grado di contrastare in modo efficace l’invasore. Basti pensare che i cinesi avevano 150 aeroplani, contro gli oltre mille dei giapponesi, che oltre tutto (nel 1940) schierarono proprio in Cina il caccia Zero, uno dei velivoli migliori di tutta la guerra.
La resistenza cinese divenne efficace solo quando venne adottata su grande scala la tattica della guerriglia: il che però aggravò ulteriormente la durezza delle rappresaglie contro la popolazione civile.
L’episodio più orribile dell’intera guerra sino-giapponese si verificò a Nanchino, attaccata nel dicembre 1937. Poiché l’esercito nipponico aveva incontrato notevoli difficoltà nella conquista di Shangai (in novembre), i soldati arrivarono a Nanchino assetati di vendetta. La violenza si scatenò subito nelle sue forme più brutali e più estreme: circa 300 000 cinesi vennero massacrati, mentre furono violentate più di 20 000 donne. «Quando ci annoiavamo, – scrisse un soldato giapponese nel suo diario – passavamo il tempo ammazzando dei cinesi. Li seppellivamo vivi, o li buttavamo nel fuoco, o li picchiavamo a morte con le mazze, o li uccidevamo in altri modi crudeli». Emerge in modo evidente, da queste parole, che i giapponesi si consideravano razzialmente superiori ai cinesi, descritti in modo spregiativo come «gente che scappa disordinatamente, come i ragni appena nati».
Una delle moderne corazzate giapponesi, la potente Yamato, varata l'8 agosto del 1940.
Il 27 settembre 1940, il governo nipponico stipulò con Germania e Italia il Patto tripartito, che impegnava i tre paesi a fornirsi assistenza politica e militare.
Nell’estate del 1941, pertanto, il Giappone si trovò di fronte ad una grave alternativa, in quanto Hitler lo sollecitava ad intervenire in Siberia, a conquistare Vladivostock e a schiacciare l’URSS in una guerra su due fronti. Tuttavia, dopo aver preso atto delle difficoltà incontrate dai tedeschi nella regione di Smolensk (luglio 1941) il governo giapponese scartò una simile ipotesi, decidendo di procedere piuttosto alla graduale occupazione dei possedimenti francesi e olandesi in Estremo Oriente, in modo da impadronirsi del petrolio, dello stagno e delle altre materie prime che si trovavano in quei territori.
Il Giappone non aprì le ostilità nei confronti dell’URSS; analogamente, ino alla sconfitta della Germania, a sua volta, Stalin non dichiarò guerra al Giappone, che condusse pertanto - si potrebbe dire - solo una sorta di guerra regionale in Estremo Oriente, dettata dai propri interessi economici, rifiutando l’offerta hitleriana di impegnarsi in uno scontro a più ampio respiro contro tutti i nemici della Germania.
Le truppe giapponesi sull'isola Christmas, marzo 1942.
La scelta della non belligeranza verso l’URSS fu presa a Tokyo il 2 luglio 1941; meno di un mese dopo, il 24 luglio, l’esercito giapponese entrò nella regione di Saigon.
Il presidente americano Fanklin Delano Roosevelt (temendo che l’espansione giapponese potesse progressivamente estromettere la Gran Bretagna e gli Stati Uniti dai mercati dell’Estremo Oriente) reagì il 26 luglio annunciando il blocco di tutti i beni giapponesi negli USA e l’embargo di ogni prodotto nei confronti del Giappone stesso. Poiché a tale chiusura delle forniture si associarono imimagestamente anche la Gran Bretagna, i paesi del Commonwealth e l’Olanda, il Giappone (che si riforniva di petrolio e caucciù dalle Indie olandesi) si decise per la guerra nei confronti delle potenze occidentali, accusate di voler impedire la creazione di quella vasta area economica asiatica - la cosiddetta sfera di co-prosperità della grande Asia orientale - che il governo nipponico riteneva essenziale alla sopravvivenza del paese.
Una nave americana affonda nel porto di Pearl Harbor dopo l'attacco aereo giapponese, 1941. Dopo quest'azione gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco dell'Inghilterra.
Il 7 dicembre 1941, l’aviazione nipponica attaccò la base americana di Pearl Harbor, situata nell’isola di Ohahu, una delle Hawai.
La flotta giapponese che condusse l’attacco era comandata dall’ammiraglio Isoruku Yamamoto, che aveva a sua disposizione due corazzate, due incrociatori pesanti, tre sommergibili e varie navi petroliere (per poter effettuare in mare i rifornimenti di carburante). Inoltre, Yamamoto guidava sei portaerei, da cui potevano essere lanciati contro le Hawai almeno 320 aerei (tra bombardieri, aerosiluranti e caccia di scorta). La flotta si posizionò a circa 300 km dalla base americana. Poiché era domenica, i comandanti avevano permesso agli equipaggi di dormire a terra e la sveglia era stata posticipata. Quando l’attacco – a sorpresa e non preceduto da una formale dichiarazione di guerra – si rovesciò sulla base americana in tutta la sua potenza, la capacità di reazione degli americani fu scarsa e tardiva. Soprattutto, non fu tempestivamente presa in considerazione la presenza sul radar dell’isola di Ohahu di un’insolita quanto enorme massa di aeroplani in avvicinamento, alle ore 7.00 del 7 dicembre. Si trattava della prima ondata di 181 aerei giapponesi, che un’ora dopo si sarebbe rovesciata su Pearl Harbor. La seconda ondata (altri 180 aerei) arrivò alle 9.00 precise.
Le corazzate della flotta americana del Pacifico in fiamme nella rada di Pearl Harbor.
Il 7 dicembre 1941, gli aerei giapponesi affondarono a Pearl Harbor, nelle Hawai, quattro corazzate americane, mentre altre dieci navi vennero gravemente danneggiate; 188 aeroplani statunitensi furono distrutti, quasi tutti al suolo. Tuttavia, le quattro portaerei in dotazione alla flotta statunitense non si trovavano nel porto al momento dell’incursione, col risultato che - per quanto gravi siano stati i suoi effetti – l’attacco a Pearl Harbor rappresentò solo una mezza vittoria, visto che restarono indenni le unità navali più importanti ai fini della prosecuzione del conflitto nel Pacifico. «Fu un’umiliazione senza precedenti nella storia degli stati Uniti e un trionfo strategico giapponese, apparentemente completo come quello della battaglia di Tsushima, che nel corso di una sola mattinata aveva scacciato la potenza navale della Russia dal Pacifico e fatto dell’ammiraglio Togo, il comandante di Yamamoto in quell’epica battaglia, il Nelson giapponese. Tuttavia, Pearl Harbor non fu una Trafalgar» (J. Keegan).
La corazzata britannica Prince of Wales, affondata dall'aviazione navale giapponese il 10 dicembre 1941.
Nei primi mesi del 1942, il Giappone non fece che cumulare successi.
I principali possedimenti inglesi e americani in Asia orientale (Hong Kong, Singapore, le Filippine) furono conquistati uno dopo l’altro, mentre l’occupazione della Birmania portò l’esercito giapponese praticamente ai confini con l’India britannica.
Nel Pacifico, lo scontro assunse caratteristiche inedite e modernissime. Infatti, a cominciare dalla battaglia del Mar dei Coralli (2 maggio 1942), sui mari le forze navali dei due schieramenti non entrarono mai in contatto diretto: le azioni furono condotte sempre e solo dagli aeroplani, che decollavano dalle portaerei, dovevano individuare posizione della flotta nemica e cercare di affondarne le navi.
Negli anni Trenta, i giapponesi avevano la flotta di portaerei più numerosa e più efficiente del mondo. Imbarcava circa 500 aerei e tale forza era trattata come un’unica vasta unità d’attacco, in base a un criterio analogo a quello che aveva guidato la formazione delle divisioni corazzate tedesche: non sparpagliare i mezzi, a piccoli gruppi, mettendo poche unità a disposizione di piccole flotte (o dei reparti di fanteria, nel caso dei carri armati), ma usarli in enormi quantità, per ottenere una formidabile massa d’urto o creare una potenza di fuoco devastante.
Un B-25 decolla dalla portaerei USS Hornet il 18 aprile 1942, nell'ambito dell'incursione aerea su Tokio, operazione nota anche come raid di Doolittle.
Il governo e lo Stato maggiore americano si resero conto che era necessario, innanzi tutto, ridare fiducia alla popolazione e ai soldati degli Stati Uniti, con un clamoroso gesto simbolico, capace di cancellare «l’infamia» (e l’umiliazione) di Pearl Harbor. Pertanto, il 2 aprile 1942, salpò da San Francisco la portaerei Hornet, che portava a bordo 16 bombardieri bimotori B-25 Mitchell.
La squadra aerea era comandata dal colonnello pilota James Doolittle ed aveva come compito quello di bombardare Tokyo. Il piano prevedeva che la portaerei si avvicinasse fino a 700 km dalle isole giapponese: una volta partiti gli aerei, la nave sarebbe imimagestamente fuggita (per evitare il contrattacco nemico), mentre i bombardieri avrebbero proseguito verso ovest, per cercare di atterrare in territorio cinese. La sorpresa riuscì solo in parte, in quanto a 1300 km dalla costa giapponese comparve una nave nipponica, che diede l’allarme. Gli aerei riuscirono tutti a decollare, e 13 a raggiungere Tokyo. Cinque atterrarono (uno in territorio sovietico), mentre gli altri (ormai privi di carburante) furono abbandonati al loro destino dagli equipaggi, che si lanciarono con il paracadute. In tutto, degli 80 aviatori americani coinvolti, si salvarono in 71 (che riuscirono poi a far ritorno negli Stati unita).
Una squadra navale statunitense nel corso di un'esercitazione.
Dopo Pearl Harbor, la flotta americana era in netta inferiorità, rispetto a quella giapponese.
L’obiettivo dei comandi nipponici era di conquistare le isole Midway: situate in una posizione centrale, nel cuore stesso del Pacifico, esse sarebbero state un’eccellente base, da cui gli aerei giapponesi sarebbero riusciti a intercettare per tempo qualsiasi flotta di rinforzo fosse arrivata dagli Stati Uniti.
La battaglia delle Midway fu prima di tutto uno scontro di intelligence: gli americani, infatti, avevano decifrato gran parte dei codici con cui le navi nemiche comunicavano tra loro. Quindi il comandante statunitense, l’ammiraglio Chester Nimitz, riuscì a capire in anticipo che i giapponesi stavano dirigendosi contro le Midway e a concentrare adeguate forze per contrastarli. Per il suo attacco, l’ammiraglio giapponese Isokuro Yamamoto poteva contare su ben 200 navi; l’offensiva ebbe inizio all’alba del 3 giugno 1942, con una vasta azione di bombardamento condotta dai giapponesi sulle isole. In un primo tempo, dunque, lo scontro fu tra le due aviazioni, e i giapponesi parvero avere la meglio, grazie all’eccezionale qualità dei loro caccia, denominati Zero.
Una squadriglia di Grumman TBF Avenger.
Lo storico inglese John Keegan ha messo in luce con estrema chiarezza le difficoltà incontrate dai piloti dei velivoli che decollavano dalle portaerei (o dovevano atterrare su di esse, a missione conclusa): «L’appartenenza ai reparti imbarcati sulla portaerei richiedeva un addestramento perfetto. In fase di decollo, senza l’aiuto di catapulte, gli aerei perdevano quota appena scavalcata la prua delle portaerei e spesso cadevano in mare, venendo immancabilmente travolti dall’unità lanciata a tutta forza; all’appontaggio i piloti erano obbligati ad arrivare a tutto motore e ad agganciarsi ai cavi d’arresto, perché, se il gancio mancava il cavo, erano costretti a riattaccare [= a riprendere rapidamente quota – n.d.r.], con l’alternativa di schiantarsi sul ponte di volo o di finire in mare. Il decollo era impegnativo quanto l’appontaggio. Nel 1942 non c’era il radar a bordo degli aerei. Il mitragliere di un aerosilurante o di un bombardiere in picchiata poteva tenere un calcolo approssimativo della propria posizione e della distanza percorsa, e a questo modo guidare il pilota verso la zona in cui si poteva sperare di rivedere la nave madre, da una buona quota e con bel tempo limpido. Un pilota da caccia, solo a bordo del suo aereo, una volta persa di vista la nave madre, si trovava perso nell’infinito e poteva ritrovare la via di casa con una buona dose di fortuna. Nel Pacifico la massima visibilità, da 3000 metri di quota col tempo sereno, era di 160 km, ma le missioni d’attacco potevano portare gli aerei a distanze superiori ai 300 km, al limite della loro autonomia: se una portaerei invertiva la rotta, o se un pilota si lasciava tentare da un obiettivo posto oltre il suo raggio d’azione, l’aereo che tentava di tornare era quasi certo di esaurire il carburante e finire in mare, e l’equipaggio, a bordo del suo canottino pneumatico, diventava un puntino giallo in un immenso oceano».
Operazioni di decollo e atterraggio su una portaerei americana di classe Midway.
Verso le 10 del mattino del 3 giugno 1942, i bombardieri decollati dalle portaerei americane Enterprise e Yorktown individuarono le portaerei giapponesi e le colpirono pesantemente: 4 bombe colpirono la Kaga (Maggiore gioia), 2 o forse 3 la Akagi (Castello rosso) e 2 la Soryu (Dragone verde). Si trattava di navi immense, che erano costate 5 anni di lavoro e migliaia di tonnellate di acciaio (33 000 la Kaga e la Akagi; 18 000 la Soryu).
Gli effetti delle bombe furono moltiplicati dal fatto che, sul ponte, erano presenti moltissimi aerei giapponesi, pronti al decollo e carichi a loro volte di ordigni, che esplosero in modo devastante. Tutte e tre le portaerei affondarono in serata, provocando la morte di 1800 tra marinai e piloti. Anche gli americani persero una portaerei, la Yorktown, colpita dai bombardieri giapponesi, decollati dall’ultima portaerei nipponica, la Hiryu (Dragone volante). Il 5 giugno, però, gli aerei americani riuscirono ad affondare anch’essa.
Aereo decolla da una portaerei americana durante la Battaglia delle Midway.
Il significato della battaglia delle Midway (3-5 giugno 1942) si coglie solo se si comprende il ruolo delle grandi navi giapponesi distrutte. Non si trattava di imbarcazioni qualsiasi, ma di veri aeroporti galleggianti e mobili. Averne perse quattro in una sola battaglia volle dire che il nemico, da parte sua, aveva invece acquistato di fatto l’assoluta superiorità nei cieli dell’oceano Pacifico. «L’affondamento delle portaerei rappresentò la perdita di un insostituibile investimento di milioni di giorno di prezioso lavoro specializzato e di un ancor più raro capitale, nonché l’unica possibilità per i giapponesi di distruggere la flotta americana e le loro basi nel Pacifico. Oltre un centinaio dei migliori piloti navali perirono in un solo giorno: l’equivalente del numero di diplomati sfornati in un anno dalla scuola di aviazione navale nipponica. Mai l’esercito nipponico aveva subìto una sconfitta così catastrofica pur godendo di uno smaccato vantaggio in termini di tecnologia, materiali, esperienze e risorse umane» (V. D. Hanson).
Marinai statunitensi osservano impotenti l'incendio a bordo di una corazzata.
A partire dall’autunno del 1944, i giapponesi tentarono di reagire alla straordinaria potenza nemica facendo ricorso alla tattica degli attacchi aerei suicidi: denominati kamikaze (vento divino), i piloti di speciali velivoli imbottiti di esplosivo si gettavano contro le navi americane (prime fra tutte le portaerei), accettando la morte in nome della salvezza della patria.
La strategia di attaccare il nemico con aerei che si schiantassero sulle navi nemiche fu teorizzata, elaborata e attuata dal viceammiraglio giapponese Takijiro Onishi. Anche se il termine, oggi, è utilizzato anche per designare il fenomeno dei martiri islamici disposti al suicidio mentre compiono attentati dinamitardi, occorre precisare che tra i due fenomeni esiste una differenza radicale. Al di là della diversa cultura, va per lo meno ricordato che i kamikaze giapponesi non furono affatto dei terroristi. Essi colpirono sempre e solo obiettivi militari, cioè le navi statunitensi. Resta che i piloti disposti al suicidio introdussero un comportamento che sconvolse profondamente le regole della guerra tipiche della mentalità occidentale, abituata a pensare che uno dei contendenti sia disposto a cessare il combattimento, quando rischia di essere annientato.
Aerosiluranti Grumman TBF Avenger e bombardieri Curtiss SB2C Helldiver, in volo verso la flotta nipponica nel giugno 1944, durante la battaglia del mar delle Filippine.
All’inizio del 1945, il Giappone era stremato: i due terzi della sua flotta mercantile erano stati affondati, cosicché le fabbriche si erano fermate per mancanza di materie prime e di carbone.
La situazione alimentare, per la popolazione, era tragica: la razione giornaliera pro capite non superava le 1200 calorie, cioè era inferiore persino a quella di cui aveva potuto disporre il popolo tedesco durante la prima guerra mondiale.
I bombardamenti sulle città si susseguivano senza quasi incontrare resistenza: l’8 marzo, in una sola incursione su Tokio, persero la vita 83 000 persone, 20 000 in più di tutti i civili inglesi periti nell’intero conflitto a causa degli attacchi aerei tedeschi. Eppure, il Giappone voleva a tutti i costi evitare l’umiliazione della resa incondizionata e, soprattutto, si sforzava di avere la garanzia del mantenimento della dinastia imperiale; pertanto, continuava a resistere, al punto che in marzo e in giugno l’occupazione delle isole giapponesi di Iwo Jima e di Okinawa costò agli americani migliaia di morti.
Il generale Mac Arthur, nella primavera del 1945, pronosticò che un’invasione del Giappone avrebbe richiesto l’impiego di almeno 5 milioni di soldati e comportato perdite fino ad un milione. Per questo motivo, Truman sollecitò l’intervento sovietico nel conflitto contro il Giappone, e l’URSS dichiarò guerra all’impero nipponico l’8 agosto. A quella data, però, gli Stati Uniti avevano già impiegato, come strumento per piegare la resistenza giapponese, l’arma nucleare. Dopo le due esplosioni di Hiroshima (6 agosto) e di Nagasaki (9 agosto), il Giappone chiese la resa, ufficialmente stipulata il 2 settembre 1945 a bordo di una corazzata americana all’ancora nella baia di Tokyo.
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