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CorpoIl leader vietnamita Ho Chi Minh.
All’inizio del Novecento, la Francia controllava la regione del Sud Est asiatico comunemente chiamata Indocina, oggi comprendente tre stati: Vietnam, Laos e Cambogia.
Nel 1941, dopo che la Francia era stata travolta dall’offensiva tedesca in Europa e costretta alla resa, questi territori passarono sotto il dominio politico del Giappone, la cui ambizione era di conquistare la Cina e di sostituirsi agli occidentali nel resto dell'Asia orientale. Alla fine del conflitto mondiale, con l’aiuto degli inglesi, i francesi riuscirono a ripristinare la loro autorità coloniale nella parte meridionale del Vietnam, che aveva in Saigon il proprio capoluogo. Nel Nord del paese, invece, la situazione venne complicata dal fatto che si era costituito un forte movimento di resistenza, diretto da Ho Chi Minh (Colui che porta la luce, pseudonimo di Nguyen Ai Quoc). Animato da un profondo desiderio di libertà per il proprio paese, Ho Chi Minh aveva dapprima viaggiato in numerosi paesi occidentali, e infine si era legato al movimento comunista. Insieme a Vo Nguyen Giap, nel 1941 aveva dato vita alla Lega per l’indipendenza del Vietnam, meglio nota col nome di Vietminh. Dopo una lunga azione di guerriglia, diretta magistralmente da Giap, nell’estate del 1945 il Vietminh riuscì a occupare la capitale del Nord, Hanoi, e numerosi altri centri (fra cui il porto di Haiphong); il 2 settembre 1945, ad Hanoi, Ho Chi Minh proclamò solennemente l’indipendenza del paese, sfidando l’autorità coloniale francese.
Civili tra cui bambini fuggono in massa per sfuggire a un controllo nord vietnamita.
Lo scontro armato ebbe inizio nel novembre del 1946, ma risultò ben presto evidente che la Francia, da sola, non era in grado di contrastare i guerriglieri del Vietminh; deciso a contenere a qualunque costo e con ogni mezzo l’espansione del comunismo, il presidente americano Truman accordò alla Francia ingenti aiuti finanziari (quasi tre miliardi di dollari: una somma superiore a quella che la Francia stessa ricevette a seguito del piano Marshall). Sul fronte opposto, invece, dal 1949, i comunisti poterono contare sull’appoggio militare cinese.
In un primo tempo, l’opinione pubblica francese sostenne i governi decisi a non perdere l’impero coloniale; col passare del tempo, però, le perdite si fecero sempre più numerose: alla fine del 1952, i francesi avevano ormai perduto novantamila uomini, tra morti, feriti, prigionieri e dispersi. Sul piano militare, il colpo decisivo fu sferrato dal Vietminh nel maggio del 1954, allorché capitolò la piazzaforte di Dien Bien Phu, difesa da ben 13 000 soldati francesi.
Abitanti dei villaggi al lavoro nei campi durante un attacco, nell'ambito della guerra del Vietnam.
Subito dopo la sconfitta francese francese, a Ginevra si aprì una conferenza di pace finalizzata a dare un nuovo assetto politico al Vietnam; dopo lunghe discussioni, cinesi e francesi obbligarono il Vietminh ad accettare che il paese venisse, per il momento, diviso in due zone, all’altezza del 17° parallelo.
La regione settentrionale divenne una repubblica comunista; nel sud, invece, alla partenza dei francesi assunse il potere Ngo Dinh Diem, un leader nazionalista che si era opposto alla dominazione coloniale straniera ma, nello stesso tempo, anche alla prospettiva di una vittoria comunista. Per Ho Chi Minh, il compromesso di Ginevra era una sconfitta inaccettabile. È vero che gli accordi prevedevano, per il 1956, libere elezioni in tutto il paese e la riunificazione di esso; dopo la conquista del potere da parte di Diem, tuttavia, divenne subito evidente che le elezioni non avrebbero mai avuto luogo e che la divisione del Vietnam sarebbe durata (come quella della Germania o della Corea) a tempo indeterminato. Pertanto, il governo del Vietnam del nord incentivò la nascita di nuclei di lotta armata, diretti a colpire militarmente lo stato del sud.
Vietcong in una "galleria".
Per schiacciare i guerriglieri che operavano nel Vietnam del sud – e che dai loro avversari furono ben presto battezzati vietcong (= comunisti vietnamiti) - gli Stati Uniti fornirono al regime di Diem consistenti aiuti finanziari e, in misura crescente, sostegno militare. In questa prima fase della guerra, gli americani presenti in Vietnam erano un numero limitato (3205 nel 1961; 9000 nel 1962); si trattava soprattutto, per il momento, di consiglieri militari, cioè ufficiali e tecnici (piloti di elicottero, per esempio) incaricati di addestrare le truppe sud-vietnamite.
Il livello di efficienza dell’esercito di Diem, tuttavia, era estremamente scadente; inoltre, Diem non introdusse mai alcuna riforma sociale o politica capace di migliorare le condizioni di vita della popolazione, formata per la grande maggioranza da contadini impegnati nelle risaie.
Il malcontento, già molto diffuso nel paese, si accrebbe ulteriormente a partire dall’estate del 1963, allorché Diem, che era cattolico, impose una serie di umilianti limitazioni all’esercizio pubblico dei riti buddhisti. Per protesta, i monaci seguaci del Buddha adottarono una forma di lotta che impressionò profondamente l’opinione pubblica di tutto il mondo: molti di essi, infatti, nel centro di Saigon, si diedero fuoco, lasciandosi morire fra le fiamme.
Elicotteri americani in azione in Vietnam.
Nel 1963, fra i generali dell’esercito sud-vietnamita maturò l’idea di compiere un colpo di Stato: il 1 novembre, dopo che il palazzo presidenziale era stato attaccato, Diem e suo fratello vennero uccisi.
Gli Stati Uniti non ispirarono direttamente l’azione dei militari, ma neppure la disapprovarono, sperando che il nuovo governo militare mostrasse migliore capacità di organizzazione e maggiore efficienza; neppure esso, tuttavia, si rivelò capace di sconfiggere i vietcong, che ricevevano regolari rifornimenti dal Vietnam del nord per mezzo il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh, una lunga pista nella giungla che collegava i due paesi e che, per lunghi tratti, attraversava territori sotto la sovranità del Laos e della Cambogia. All’interno degli ambienti politici e militari americani, pertanto, si fece strada l'idea della necessità di un coinvolgimento massiccio e diretto delle forze armate statunitensi, che andasse al di là del sistema dei consiglieri militari (che nel 1963, per altro, avevano già raggiunto la ragguardevole cifra di 16 000).
Un combattente vietcong fatto prigioniero da un soldato americano nella valle di Que-son.
Nel 1964, il governo del Vietnam del nord decise di intensificare la lotta per liberare la regione meridionale del paese; in primo luogo, pertanto, procedette a trasformare il sentiero di Ho Chi Minh in una grande arteria stradale, capace di permettere il transito di notevoli quantità di uomini e mezzi verso sud. Non appena la guerriglia dei vietcong si fece più violenta, anche il governo americano (nella persona del presidente Lyndon Johnson) decise di prendere provvedimenti più radicali per schiacciare il nemico; innanzi tutto, ordinò all’aviazione di bombardare sia il Vietnam del nord che il sentiero di Ho Chi Minh, in modo da costringere i comunisti a desistere dal continuare le operazioni belliche.
Carri armati statunitensi avanzano su un terreno sconvolto dalla battaglia, Vietnam.
L’esercito americano dispiegò in Vietnam tutta la propria potenza; i soldati, in battaglia, erano appoggiati da elicotteri, aviazione, artiglieria e mezzi corazzati. Il terreno vietnamita, tuttavia, non permise a tale spiegamento di forze di ottenere il successo che avrebbe potuto avere in qualsiasi guerra convenzionale. I soldati americani, in effetti, spesso dovettero combattere una guerra di imboscate improvvise nelle risaie e nella giungla, senza l’esistenza di un vero e proprio fronte, mentre la popolazione, in molte regioni, appoggiava e proteggeva i vietcong. Per anni, il conflitto non fece significativi passi in avanti, mentre le truppe statunitensi (e, ancor più, l’opinione pubblica americana) mostrarono segni di tensione e di delusione sempre più forti. Neppure l’uso del napalm (una sostanza altamente infiammabile) e di grandi quantità di sostanze defoglianti permise agli americani di snidare i guerriglieri.
Soldati americani avanzano nel Triangolo di Ferro, pronti ad effettuare una strenua resistenza vietcong.
L’ offensiva del Tet è l’episodio più famoso e controverso della guerra del Vietnam. Secondo il tradizionale calendario locale, il Tet è il capodanno vietnamita, che nel 1968 cadeva il 31 gennaio. Approfittando della temporanea smobilitazione di gran parte delle truppe del Vietnam del sud, i comunisti ruppero la tregua che era stata stipulata in occasione della festa e attaccarono simultaneamente numerosi obiettivi.
L’offensiva fu scatenata lanciando 80 000 uomini (tra vietcong e truppe regolari del Vietnam del Nord) contro 36 dei 44 capoluoghi di provincia della regione meridionale. Scopo dell’attacco, insomma, era di conquistare tutti i principali centri urbani del Vietnam del sud, compresa la stessa Saigon; verosimilmente, i dirigenti comunisti speravano poi che il successo di un’intera operazione così clamorosa avrebbe spinto la popolazione sud-vietnamita ad insorgere e a cacciare gli imperialisti americani.
Marines, protetti dalla M60 del mitragliere, si precipitano fuori da un elicottero UH-34 durante un'operazione di "search and destroy" nel 1965, Vietnam.
Quando i nordvietnamiti e i vietcong scatenarono l’ offensiva del Tet (il 31 gennaio del 1968), in un primo tempo la sorpresa fu assoluta. Nella capitale, 4000 vietcong presero d’assalto tutti i principali edifici governativi e la stessa ambasciata degli Stati Uniti, oltre alle sedi della polizia e della televisione. Diciannove guerriglieri comunisti, a bordo di un camion e di un taxi, riuscirono a forzare il muro di cinta della sede diplomatica statunitense e a spargere il panico, prima di essere eliminati. Anche nel resto della capitale l’offensiva fu ben presto respinta, anche gli episodi di guerriglia urbana furono numerosi e sanguinosi.
Il servente di una squadra di mortai si tappa le orecchie in previsione del colpo, nell'ambito della guerra in Vietnam.
Durante l’offensiva del Tet (iniziata il 31 gennaio del 1968), fuori da Saigon gli scontri più duri si ebbero a Hué (la terza città più grande del Vietnam del sud, situata vicino al confine con lo Stato comunista rivale), attaccata da 12 000 uomini. I comunisti si impossessarono dell’antica Cittadella di Hué, che trasformarono in fortezza; ci vollero 26 giorni per riconquistarla, e i marines americani furono costretti a una battaglia durissima tra le rovine, simile a quella condotta dai tedeschi a Stalingrado. Come ha scritto G. Smith, «i marines erano diventati un immobile mucchio di ratti, rannicchiati in mezzo a un cumulo di macerie di case crollate, circondati da pezzi di mura del cortile, automobili bruciate, alberi e pali elettrici abbattuti». Infine, dev’essere ricordata almeno la violentissima battaglia che si svolse nei pressi della base americana di Khesanh, assediata dai nord-vietnamiti per circa tre mesi. Il 6 aprile, la grande battaglia era finita.
Soldati americani in Vietnam nel febbraio del 1967.
Da un punto di vista strettamente militare, l’ offensiva del Tet fu – per chi l’aveva lanciata – un completo fallimento, uno di quei disastri che, in una guerra tradizionale, avrebbero deciso le sorti del conflitto. È stato stimato che a Khesanh, per ogni americano morto (non più di 200), siano caduti sotto il micidiale fuoco dell’aviazione statunitense almeno 50 soldati comunisti. Nel complesso è possibile affermare che, tra il 31 gennaio e il 6 aprile, morirono almeno 40 000 tra vietcong e nord-vietnamiti; nel solo anno 1968, furono uccisi più soldati comunisti di tutti gli americani caduti nei 10 anni compresi tra il 1963 e il 1973. Eppure, paradossalmente, l’offensiva si trasformò in un successo, in quanto dimostrò che gli Stati Uniti potevano, certo, infliggere perdite gigantesche al nemico, ma non avrebbero mai potuto vincere davvero la guerra. Poiché un’invasione del Vietnam del nord e un serio tentativo di annientare il nemico (come, ad esempio, era accaduto per la Germania di Hitler, nel 1945) erano del tutto impossibili, per timore di un coinvolgimento sovietico e cinese, la guerra sarebbe proseguita a oltranza, mentre l’opinione pubblica americana (giovani, famiglie dei soldati, contribuenti…) era stanca di spendere denaro e bruciare vite americane in Vietnam. Di qui la paradossale decisione americana, presa pochi mesi dopo la formidabile vittoria militare del 1968, di iniziare una strategia di sganciamento dal ginepraio indocinese.
Marcia dei pacifisti a Washington contro la guerra del Vietnam.
L’ offensiva del Tet costò ai comunisti circa 40 000 caduti; eppure, mostrò che neanche la presenza di 500 mila marines era riuscita a schiacciare la determinazione dei vietnamiti. Mentre i giovani, nelle città e nelle università americane, elevavano proteste sempre più rumorose contro la presenza militare statunitense, anche l’opinione pubblica e i più autorevoli mezzi d’informazione cominciarono a reclamare che gli Stati Uniti uscissero dal Vietnam e che la diplomazia subentrasse alle armi: del resto, nel solo 1967, la guerra era costata 21 miliardi di dollari, costringendo Johnson ad aumentare del 10% le imposte sui redditi.
Il compito di uscire dal Vietnam venne affidato dal nuovo presidente, Richard Nixon, eletto nel novembre 1968, al suo consigliere, Henry Kissinger. Questi aveva da tempo capito che era impossibile una vittoria schiacciante, capace di chiudere la lotta una volta per tutte sul piano militare. Pertanto, scelse lucidamente la strada del compromesso col governo nord-vietnamita.
Marines gravemente feriti e sotto shock dopo i combattimenti in Vietnam.
Secondo numerosi storici, la guerra in Vietnam è stata il conflitto in cui la fotografia ha avuto il ruolo maggiore. Oltre tutto, ciò è accaduto nella sua fase più drammatica: quella degli anni 1965-1973, che videro il massiccio e diretto coinvolgimento delle forze armate americane. In Indocina, cronisti, corrispondenti di guerra e fotografi inizialmente furono lasciati liberi di scrivere o riprendere qualsiasi cosa, senza alcuna speciale censura.
Il risultato fu la prima guerra in diretta, cioè una grande quantità di immagini e di scene, spesso molto potenti o traumatiche, che invasero le case dei cittadini americani per mezzo dei quotidiani, delle riviste o della televisione.
Un aereo americano sgancia bombe al napalm in territorio nord vietnamita (1962).
Secondo Marshal McLuhan (uno dei primi intellettuali che intuì la nuova forza assunta dai mass images, oltre a cogliere che, grazie a essi, il mondo si era trasformato in un unico villaggio globale), «la televisione portò la brutalità della guerra nei salotti delle case. La guerra del Vietnam fu persa nei soggiorni americani, non sul campo di battaglia». Forse, questo giudizio è troppo semplicistico, in quanto bisogna tener conto di numerosi altri fattori, ciascuno dei quali risultò determinante o contribuì alla sconfitta americana. Senza dubbio, le più alte autorità politiche e militari statunitensi sottovalutarono la determinazione a resistere a oltranza del popolo vietnamita, o per lo meno del suo gruppo dirigente, che riuscirono a sopportare le terribili perdite dei bombardamenti aerei delle azioni militari di terra. In questo contesto, impossibilitati com’erano ad andare fino in fondo – cioè ad invadere il Vietnam del nord – per timore di una reazione sovietica, la guerra non poteva essere vinta.
Truppe del 33° Ranger sud vietnamita rastrellano la Piana delle Canne alla ricerca di soldati nemici, mentre gli elicotteri da trasporto si allontanano dal tiro terrestre.
Mentre il conflitto si prolungava all’infinito, senza risultati tangibili, i fotografi e cineoperatori americani posero grazie al loro lavoro una serie di interrogativi sempre più seri e inquietanti, che spinsero un numero crescente di cittadini ad assumere un atteggiamento contrario alla guerra. Uno dei primi e più drammatici servizi fotografici fu realizzato nel 1965, per la rivista Life, da Larry Burrows, che documentò un episodio di guerra a bordo di un elicottero colpito dai colpi delle mitragliatici vietnamite. «Ero combattuto – disse lo Burrows a posteriori – tra l’essere un fotografo e l’essere un uomo con normali sentimenti umani. Non è facile fotografare un pilota che sta morendo tra le braccia di un amico e poi fotografare l’amico che crolla… Stavo semplicemente sfruttando il dolore degli altri?». In altri casi, i fotografi si trovarono in una situazione meno difficile e meno problematica, in quanto il loro lavoro assunse un preciso scopo di denuncia dei caratteri sempre più brutali che il conflitto stava assumendo. Si pensi, in primo luogo, al sergente Ronald L. Haeberle, che il 16 marzo 1968 documentò l’eccidio compiuto da un reparto americano nel villaggio di My Lai, ove furono uccisi 347 civili, accusati di aver aiutato i vietcong.
Il colonnello Loan sta per sparare un colpo alla testa ad un giovane vietcong appena catturato, 1 febbraio 1968.
Le fotografie prese da Eddie Adams per la Associated Press fecero subito il giro del mondo: si trattava di immagini a dir poco imbarazzanti, visto che ritraevano il generale sud-vietnamita Nguyen Ngoc Loan, mentre minacciava un vietcong alla tempia e poi lo uccideva a sangue freddo. Ancora più celebre divenne la fotografia scattata nel 1972 dal fotografo sud-vietnamita Nick Ut, dopo che una bomba al napalm americana aveva per errore colpito un villaggio di contadini. Dopo essersi liberata dei vestiti in fiamme, Kim-Phuc, di nove anni, correva disperata invocando soccorso e urlando: «Nong Quá! Too hot!» (ovvero: «Troppo caldo! Aiutami»). Nick Ut stesso le fornì i primi soccorsi, ma furono poi necessari almeno 17 interventi chirurgici, in 14 mesi, per salvarla. L’11 novembre 1996, Kum-Phuc si riconciliò pubblicamente con l’ex-capitano John Plummer, che nel 1972 aveva dato l’ordine di sganciare le bombe al napalm, ma che poi, profondamente colpito dagli effetti della sua azione militare, nel frattempo era diventato sacerdote.
Aereo Crusader viene agganciato alla catapulta della portaerei, pronto per svolgere la sua parte nell'operazione Linebacker, nell'ambito della guerra del Vietnam.
Lo storico americano S. Karnow ha ricordato che, «durante l’operazione Rolling Thunder, che durò dal marzo 1965 al novembre 1968 con incursioni aeree quasi quotidiane sul Vietnam del nord, venne sganciato un milione di tonnellate di esplosivo tra bombe, razzi e missili; come dire ottocento tonnellate di esplosivo al giorno per una durata di tre anni e mezzo. Secondo una stima ufficiale del Pentagono, nel solo 1966 l’aviazione statunitense condusse settemila incursioni contro la rete stradale, cinquemila contro i mezzi di comunicazione e più di mille sui binari e sui depositi ferroviari del Vietnam del nord, spesso bersagliando più volte lo stesso obiettivo. Uno degli scopi dell’operazione Rolling Thunder era abbattere il morale dei leader di Hanoi e costringerli a sospendere l’offensiva al sud; l’altro era quello di indebolire le forze da combattimento comuniste ostacolando l’afflusso di uomini e rifornimenti verso il sud». In realtà, nessuno di questi obiettivi venne neppure lontanamente conseguito: nell’agosto 1966, il generale William Westmoreland, comandante in capo delle forze americane in Vietnam ammise di non poter riscontrare «alcun sintomo di indebolimento nella determinazione della leadership di Hanoi». McNamara, segretario della Difesa, uno degli ideatori dell’offensiva aerea, espresse la stessa conclusione ancor più incisivamente un anno dopo, nel corso di una seduta a porte chiuse di una sottocommissione del Comitato Senatoriale per i servizi Armati. Affermò che «sulla base di tutte le informazioni a mia disposizione, i nostri bombardamenti non possono bloccare le operazioni nemiche al Sud; l’unico modo sarebbe quello di annientare letteralmente tutto il popolo del Vietnam del nord».
Elicottero con le pale in moto in attesa che venga imbarcato un giovane marine rimasto mutilato da una trappola vietcong.
I giovani americani che parteciparono alla guerra in Vietnam erano soldati di leva, che prestavano servizio per un anno. In quel conflitto, i servizi sanitari funzionarono come mai avevano agito in un scenario bellico. Mentre durante le guerre napoleoniche o nel conflitto 1914-1918 poteva capitare che passassero ore (o addirittura un giorno intero) prima che un ferito ricevesse le prime cure, è stato stimato che – grazie alle comunicazioni radio e all’elicottero, in grado di atterrare e decollare verticalmente su ogni terreno – in images un soldato americano ferito in Vietnam riceveva i primi soccorsi dopo un quarto d’ora dal momento in cui era stato colpito dal fuoco nemico. Dunque, moltissimi soldati che, in guerre precedenti, sarebbero morti, tornarono a casa vivi dal Vietnam, sia pure mutilati o pesantemente traumatizzati.
Per tutti i giovani americani presenti in Indocina l’esperienza bellica fu drammatica; pertanto, fra le truppe erano diffusissime le droghe. Spesso, i reduci furono colpiti da gravi turbe psichiche, con il risultato che, in varie circostanze, ex-soldati depressi o impazziti persero completamente il controllo dei propri nervi, giungendo a sparare sugli abitanti della propria città.
Il segretario di stato degli Stati Uniti Henry Kissinger, l'artefice del disimpegno americano dal Vietnam, fotografato a Parigi nel maggio 1973.
Il 27 gennaio 1973, a Parigi, venne raggiunto un accordo, che prevedeva la fine dei combattimenti e la liberazione di tutti i prigionieri. Dal punto di vista americano, tuttavia, si trattava chiaramente di una sconfitta, in quanto all’esercito comunista era concesso di rimanere nelle zone di territorio sud-vietnamita controllato dai vietcong. È vero che il governo di Saigon ricevette, prima del definitivo disimpegno statunitense, ingenti rifornimenti di armi; ciò nonostante, era chiaro che i comunisti non avrebbero rinunciato affatto alla riunificazione del paese: Kissinger con l’accordo di Parigi, aveva solo guadagnato che la totale vittoria comunista avvenisse dopo un «decente intervallo» (come disse in privato, una volta, lo stesso Kissinger) rispetto all’uscita degli Stati Uniti dal conflitto. In effetti, nella primavera del 1975, l’esercito nord-vietnamita attaccò in forze, riuscendo a conquistare tutte le principali città del paese. Saigon fu occupata il 30 aprile e venne ribattezzata Città Ho Chi Minh, in onore del leader comunista, morto nel 1969.
Aerei d'attacco A-4 Skyhawk in formazione nell'ambito della guerra del Vietnam.
Negli anni seguenti la fine del conflitto, si verificò un massiccio esodo di vietnamiti che non volevano vivere sotto un regime comunista o che esso aveva subito iniziato a discriminare e perseguitare, accusandoli di aver collaborato con il governo di Saigon. Quasi un milione di persone hanno abbandonato via mare, con imbarcazioni di fortuna, il Vietnam del sud, e forse 50 mila di esse sono morte nel corso della navigazione. Nel paese riunificato, intanto, il governo procedette in tempi brevi alla collettivizzazione delle campagne (soprattutto nel fertile delta del fiume Mekong) e a varare un piano quinquennale di matrice sovietica, basato sulla preminenza dell’industria pesante. Come in tutti gli altri paesi socialisti, anche qui l’economia - oltre tutto penalizzata dalla necessità di ricostruire le devastazioni di trent’anni di guerra - è ben presto entrata in grave crisi, al punto che il Vietnam è stato per vari decenni uno dei paesi più poveri della Terra. «Sì, abbiamo sconfitto gli Stati Uniti. - disse nel 1981, in un'intervista, il primo ministro Pham Van Dong - Ma adesso siamo perseguitati da molti problemi. Non abbiamo da mangiare. Siamo un paese povero, sottosviluppato. Fare una guerra è facile, ma governare un paese è difficile». Imitando la Cina, in tempi recenti il Vietnam (80 milioni di abitanti, nel 2002) si è aperto agli investimenti stranieri e ha privatizzato parte della propria agricoltura. Tali provvedimenti hanno provocato un rapido incremento nella produzione di riso e un promettente sviluppo industriale.
Il cammino verso la prosperità, tuttavia, è senza dubbio ancora lungo e faticoso.
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