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CorpoUna donna cammina tra edifici devastati dalla guerra, Croazia.
Il 28 giugno 1948, il partito iugoslavo venne espulso dal Cominform, la nuova versione dell’Internazionale comunista, saldamente controllata da Mosca. Per circa trent’anni, la Iugoslavia si trovò in una posizione strana e difficile: in quanto repubblica comunista, era guardato con sospetto dagli Stati Uniti; nel medesimo tempo, rifiutava di allinearsi, cioè di sottomettersi, alla potenza sovietica. Questa situazione permise al presidente Tito di cementare l’unità di un paese diviso e poco omogeneo.
L’insistenza sul marxismo (con il suo motto Proletari di tutto il mondo unitevi!) permetteva di dare scarsa rilevanza alle varie nazionalità che esistevano sul territorio iugoslavo e che spesso erano in contrasto tra loro da lungo tempo. In secondo luogo, il pericolo di uno scontro armato (sia con le potenze capitalistiche sia con l’URSS) permetteva di insistere sulla necessità dell’unione, sulla concordia interna, per la sopravvivenza comune.
Kossovari di tutte le età attraversano la Macedonia messi in fuga dai Serbi.
Il presidente Tito (che guidò la Iugoslavia comunista dal 1945 al 1980) era un croato e conosceva bene il nazionalismo dei serbi: anzi, poiché lo temeva, prese una serie di misure finalizzate a contenerlo. Innanzi tutto, la nuova Repubblica di Iugoslavia fu costruita su base federale e organizzata in sei repubbliche (Slovenia, Croazia, Bosnia-Erzegovina, Macedonia, Serbia e Montenegro). La Serbia, poi, fu notevolmente indebolita, quanto a estensione territoriale, in quanto perse la Macedonia (costituita in repubblica separata) e il Kosovo (dichiarato nel 1974 provincia autonoma).
Le cariche pubbliche e di partito, invece, furono distribuite in modo equo, senza privilegiare alcuna nazionalità.
Le rivendicazioni serbe emersero subito dopo la morte di Tito (1980) e si fecero sempre più acute nel corso degli anni seguenti. Man mano che la situazione economica, in Iugoslavia come in tutti gli altri paesi comunisti, si faceva sempre più critica, in Serbia ripresero vigore le vecchie ambizioni egemoniche.
Un gruppo di persone corre in strada per sfuggire il fuoco delle truppe serbe sempre in agguato, Sarajevo, 1992.
Il 28 giugno 1989, il leader nazionalista serbo Slobodan Milosevic annunciò la revoca dell’autonomia del Kosovo. Per reazione, in Slovenia e in Croazia - regioni settentrionali, più sviluppate dal punto di vista industriale - si fece strada l'idea di una secessione dalle più arretrate repubbliche del Sud (Serbia, Montenegro, Bosnia, Macedonia).
Il 25 giugno 1991, Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza dalla federazione jugoslava. Le due regioni, però, erano molto diverse tra loro, in quanto la Slovenia era più omogenea della Croazia sotto il profilo etnico: in pratica, ospitava solo una piccola minoranza (formata dai pochi italiani che non erano fuggiti nel 1947) entro i propri confini. In Croazia, invece, si trovavano moltissimi serbi, che oltre tutto furono quasi subito oggetto di discriminazione. Costoro quindi (appoggiati e sostenuti dall'esercito della Repubblica di Serbia) si organizzarono in formazioni armate, per ottenere a loro volta l’indipendenza dalla Croazia.
Rifugiati albanesi in cammino verso Kukes in Kosovo nel 2000.
Nel 1991, esplose con violenza feroce la guerra serbo-croata.
Poiché il lungo regime di Tito aveva facilitato in ogni modo gli intrecci, i matrimoni misti e la mescolanza tra i diversi gruppi, in tutte le regioni della Jugoslavia, le etnie erano ormai mescolate in maniera inestricabile. Scoppiata la guerra, da entrambe le parti si fece allora ricorso in modo feroce e sistematico alla cosiddetta pulizia etnica. Al fine di rendere una regione del tutto omogenea sotto il profilo nazionale, si procedette all’eliminazione fisica o all’espulsione con la violenza di tutte le minoranze (seguendo una procedura simile a quella adottata dai serbi in Kosovo, nel 1913, e dai croati filo-nazisti negli anni 1941-1945).
I rifugiati di Srebrenica arrivano a Tuzla (Bosnia-Erzegovina), luglio 1995.
Nel 1992, il conflitto si estese anche alla Bosnia-Erzegovina, la regione che - proprio al centro del paese - era caratterizzata dalla maggiore complessità etnica, complicata per di più dalla presenza dei musulmani (slavi convertitisi all’islam, al tempo della dominazione turca).
Intorno a Sarajevo e nel resto della Bosnia, infuriò una lotta brutale fra serbi, croati e musulmani, mentre l’intervento delle Nazioni Unite non sortì nessun effetto moderatore.
È difficile fare un bilancio delle vittime della serie di guerre che hanno devastato la ex-Iugoslavia negli anni Novanta: il più lungo e sanguinoso conflitto europeo del Novecento, escluse le guerre mondiali. Solamente in Bosnia, l’insieme delle violenze ha provocato più di 250 000 morti. L’episodio più feroce (il più grande massacro di civili in Europa, dopo il 1945) si verificò a Srebrenica, il 13-15 luglio 1995, allorché le milizie serbe uccisero circa 7000 musulmani bosniaci, mentre le truppe dell’ONU (soldati olandesi) presenti nei dintorni scelsero di non intervenire.
Albanesi in fuga dal Kosovo, 1999.
Nel 1998, il presidente serbo Milosevic decise di procedere alla pulizia etnica del Kosovo. Per lui e per tutti gli altri nazionalisti serbi, gli albanesi residenti in questa terra erano degli intrusi, degli usurpatori che occupavano abusivamente una terra sacra, considerata la vera culla della cultura serba. Per tutto il 1998, gli albanesi furono oggetto di violenze simili a quelle subite dai musulmani di Bosnia: almeno 300 villaggi furono distrutti, mentre circa 250 000 profughi furono costretti ad abbandonare le loro case. Il 20 marzo 1999, l’esercito serbo intensificò la propria attività, con l’obiettivo di costringere tutti i kosovari albanesi a fuggire in direzione della Macedonia e dell’Albania.
Una politica così brutale e violenta spinse all’azione gli Stati Uniti e i paesi aderenti alla NATO. A partire dal 24 marzo, Belgrado e le altre città della Serbia furono oggetto di violentissimi bombardamenti. In un primo tempo, queste azioni non ottennero nessun risultato: anzi, i militari serbi si fecero ancora più spietati, uccidendo 100 000 persone e spingendone oltre frontiera almeno 600 000.
I bombardamenti si fecero allora sempre più intensi, al punto che la Serbia rischiò di trasformarsi in una terra priva di qualsiasi infrastruttura moderna (centrali elettriche, ponti, ferrovie, industrie, stazioni televisive...). Infine, Milosevic accettò di interrompere le violenze e di ritirare le truppe serbe dal Kosovo, che venne presidiato da truppe della NATO. Nell’autunno 2000, Milosevic fu costretto ad abbandonare il potere in Serbia. Dopo essere stato arrestato, fu condotto di fronte al Tribunale Internazionale dell’Aja, incaricato di processarlo per crimini contro l’umanità, ma nel 2005 è morto in carcere.
Croazia
La pulizia etnica nella ex-Iugoslavia
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