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CorpoRitratto del presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt.
Nell’ottobre del 1929, dopo un periodo di forsennata speculazione finanziaria, la Borsa di New York (sita in Wall Street) registrò un brutale ribasso del valore dei titoli, in quanto le aziende (che già nel corso dell’estate avevano incontrato le prime difficoltà per collocare sul mercato i propri prodotti) non possedevano più un livello di prosperità effettivamente corrispondente all’elevata quotazione in borsa delle loro azioni. Il 24 ottobre 1929 (passato alla storia come il giovedì nero) Wall Street crollò: in preda al panico, gli operatori finanziari (molti dei quali, tra l’altro, si suicidarono a seguito delle immense perdite subite in quei giorni convulsi) presero a vendere, pur di liberarsi di titoli che parevano perdere costantemente valore di minuto in minuto. Ma il crollo borsistico dell’ottobre 1929 - sebbene rappresenti l’inizio per così dire ufficiale della grande depressione - non ne fu assolutamente la causa. Esso fu solo il sintomo più clamoroso della situazione che si era venuta a creare: a causa delle difficoltà degli agricoltori, un regime economico basato sull’aumento costante della produzione (= dell’offerta) si stava scontrando con una stasi della domanda, con l’incapacità del mercato di assorbire la mole sempre crescente dei prodotti sfornati dalle fabbriche. Iniziata in un settore specifico, quello finanziario, la crisi si manifestò nel giro di poco tempo in tutti gli altri comparti, fino a travolgere in breve l’intera economia, dapprima degli Stati Uniti, e poi di tutti i paesi industrializzati. Mentre più di 5000 banche dovettero cessare la loro attività, i fallimenti commerciali e industriali, tra il 1929 e il 1932, procedettero al ritmo dell’11% all'anno. La produzione industriale, negli USA, diminuì del 45%, col risultato che i disoccupati passarono dai 2 milioni dell'inizio del 1929, a 8 milioni all'inizio del 1931, a 12 milioni nel 1932 e infine a 17 milioni nel 1933; nel 1935, più del 25% dell'intera popolazione attiva statunitense era ancora senza lavoro.
Roosevelt vincitore alle presidenziali del 1932.
Nel 1929, presidente degli Stati Uniti era il repubblicano Herbert Hoover. Profondamente legato alla dottrina del liberismo economico classico, non seppe trovare alcun rimedio alla crisi. Anzi, fiducioso nella capacità del mercato di autoregolarsi, e convinto che ogni intervento dello Stato nella sfera della economia equivalesse a un opprimente socialismo nemico dell’individuo e della sua libertà di iniziativa, Hoover non si curò neppure di venire incontro alle necessità più elementari dei disoccupati. Lasciato a se stesso, il paese venne assumendo un aspetto spettrale, mentre la vita di milioni di americani passava brutalmente dalla prosperità degli anni Venti alla drammatica miseria dei primi anni Trenta. Le campagne furono letteralmente invase da una schiera di vagabondi e di miserabili: quei disperati che John Steinbeck, nel suo romanzo Furore, ha fotografato meglio di tutti. Alla periferia delle metropoli, nel medesimo tempo, disoccupati ed emarginati di ogni tipo si ammassavano in baraccopoli improvvisate che, in segno di disprezzo, vennero denominate hoovervilles. In questa atmosfera di miseria generalizzata e di frustrazione, alle nuove elezioni presidenziali del 1932 venne eletto il democratico Franklin Delano Roosevelt.
Franklin Delano Roosevelt firma la Social Security Act il 14 agosto 1935, legge che introduceva, nell'ambito del New Deal, l'indennità di disoccupazione, di malattia e di vecchiaia.
Quando F. D. Roosevelt, nel 1933, assunse i pieni poteri di presidente degli Stati Uniti, rispetto al 1929 il prodotto nazionale lordo era più basso di un terzo, l’indice dei prezzi era circa la metà di quello precedente l’inizio della crisi, gli investimenti privati lordi erano caduti del 90%, i disoccupati erano quasi 13 milioni. Nel suo discorso inaugurale, pronunciato il 4 marzo 1933, il nuovo presidente non nascose la gravità della situazione, ma lanciò anche un forte messaggio di speranza: «Questo è soprattutto il momento di dire la verità, l’intera verità, francamente e audacemente. Né dobbiamo indietreggiare di fronte alla necessità di far fronte onestamente alle condizioni odierne del nostro paese. Questa grande nazione sopporterà come ha sempre sopportato, rinascerà e prospererà ancora. Lasciate pertanto che io riaffermi in primo luogo la mia ferma convinzione che la sola cosa di cui dobbiamo aver paura è la paura stessa, l’irragionevole ingiustificato terrore senza nome che paralizza gli sforzi necessari a convertire la ritirata in progresso». Al di là della retorica, però, Roosevelt si rese imimagestamente conto del fatto che, per affrontare la crisi in tutta la sua gravità, bisognava violare l’ortodossia liberista, la dottrina economica che era stata considerata per più di un secolo una specie di indiscutibile articolo di fede, e percorrere strade radicalmente nuove: adottare un New Deal, cioè un Nuovo Corso.
Il presidente degli Stati Uniti Franklin D. Roosevelt.
Uno dei concetti-guida del New Deal riguardò il ruolo da assegnare allo stato nella dinamica economica. Innanzi tutto, l’amministrazione Roosevelt scelse deliberatamente di andare incontro a un deficit nei conti dello stato, pur di trovare le risorse necessarie a far ripartire il meccanismo inceppato dell’economia nazionale. Roosevelt intraprese una grande campagna di lavori pubblici, all’interno della quale il posto preminente fu assunto dalla costruzione delle grandi dighe che permisero lo sfruttamento idroelettrico del fiume Tennessee. All’inizio del 1934, lo stato era riuscito a trovare un impiego a più di 4 milioni di disoccupati; negli anni seguenti, in images, fu possibile creare due milioni di posti di lavoro all’anno. L’agricoltura, invece, fu sostenuta con una serie di sussidi, offerti ai contadini disposti a ridurre la propria produzione, al fine di risollevare i prezzi dei prodotti agricoli, fossero. Al di là di ogni particolare, l’entità dello sforzo compiuto dall’amministrazione Roosevelt e la novità del suo operato si riassumono nei dati delle spese del governo federale: tra il 1930 e il 1936, il debito nazionale passò da 16 a 36 miliardi di dollari. Malgrado ciò, nel 1939 il paese contava ancora 9 milioni e mezzo di disoccupati.
Il presidente Roosevelt (a destra) e Douglas MacArthur (all’estrema sinistra) celebrano la promozione di quest’ultimo come capo di stato maggiore dell’armata americana, 1944.
Il 7 dicembre 1941, il Giappone coinvolse gli Stati Uniti nel conflitto mondiale, attaccando la flotta americana a Pearl Harbor, nelle isole Hawai; quattro giorni dopo, l’11 dicembre, Hitler dichiarò guerra agli USA, che dovettero combattere su due fronti: nel Pacifico, contro il Giappone, e in Europa, contro il Terzo Reich. Roosevelt prese la sua decisione politica più importante nel 1943: alla conferenza di Teheran, fu deciso che, entro il 1944, gli anglo-americani avrebbero aperto un secondo fronte in Francia. Una simile opzione fu osteggiata, fino all’ultimo, da Churchill, che proponeva in alternativa uno sbarco nei Balcani, ovvero un attacco da sud alla fortezza Europa nazista. La preoccupazione dello statista inglese era evidente: ormai certo della sconfitta di Hitler, Churchill cominciava a temere le conseguenze future dell’avanzata sovietica verso l’Europa centrale.
Franklin Delano Roosevelt e Joseph Stalin alla Conferenza di Jalta, febbraio 1945.
Il 4 febbraio 1945, i Tre Grandi (Roosevelt, Churchill e Stalin) si riunirono a Yalta, in Crimea. Dal punto di vista militare, la situazione era decisamente favorevole: malgrado la disperata resistenza delle ultime armate tedesche, la capitolazione della Germania era ormai solo una questione di tempo. Proprio per questo, tuttavia, si apriva una fase radicalmente nuova nei rapporti fra i tre partner della coalizione anti-Hitler, nel senso che si doveva cominciare a riflettere sul futuro assetto dell’Europa post-bellica. La grande speranza di Roosevelt era di poter continuare la collaborazione coi sovietici anche dopo la sconfitta di Hitler. A tal fine, egli ripose grandi speranze nella Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), che nelle intenzioni americane avrebbe dovuto tutelare tutti gli Stati del mondo, anche i più deboli e più indifesi, dalle mire egemoniche dei più forti. Sulla carta, la finalità principale del nuovo organismo era la conservazione della pace e della sicurezza a livello mondiale, imagesnte una sistematica azione di prevenzione e di punizione di ogni violazione del diritto internazionale. Perché un simile progetto potesse funzionare, era necessaria la partecipazione sovietica alla nuova organizzazione mondiale; Stalin, invece, era molto preoccupato che l’ONU potesse diventare il nucleo di aggregazione e lo strumento di attuazione di una grande politica antisovietica, da parte dei paesi capitalisti. Così, a Yalta, il dittatore russo ottenne che all’interno del Consiglio di sicurezza (l’organismo direttivo dell’ONU, composto da undici membri, sei dei quali variabili) le cinque più importanti potenze (USA, URSS, Gran Bretagna, Francia e Cina, membri permanenti del Consiglio di sicurezza stesso) godessero del diritto di veto. Su questa base, l’Organizzazione poté ufficialmente nascere il 26 giugno 1945, dopo che un’apposita conferenza convocata a San Francisco ne ebbe fissato i principi di fondo e lo statuto. Ma, pur di ottenere il coinvolgimento dell’URSS, Roosevelt accettò di fare a Stalin quella concessione che avrebbe di fatto paralizzato l’ONU per quasi cinquant’anni. Infatti, grazie al diritto di veto, le varie potenze furono in grado di bloccare, fino agli anni Novanta, ogni decisione dell’ONU che mettesse in questione i loro interessi nelle varie aree del pianeta.
Franklin Delano Roosevelt
Roosevelt, il presidente del New Deal
Leadership e carisma nel Novecento
Franklin Delano Roosevelt
Roosevelt firma la Social Security Act