Nel pomeriggio del Natale scorso sette ragazzi sono fuggiti dal carcere minorile Beccaria di Milano.
Infilandosi in un passaggio dei lavori in corso nella struttura, hanno improvvisato la fuga sul momento. Un’evasione naïf,
infatti in poche ore li hanno ritrovati tutti. Dove? A casa delle famiglie a festeggiare il Natale, al parco o sul divano con gli amici...
non certo luoghi di latitanza preparati da una rete organizzata. È la scena icastica per raccontare i ragazzi di oggi, perché anche quelli
che vivono “fuori” si sentono “dentro”: la realtà assomiglia a una prigione di narrazioni contraddittorie e disperanti, da cui,
se hanno ancora un po’ di fame d’aria, tentano di fuggire in cerca di legami capaci di farli sentire “parte” della vita e di avere una “parte” nella vita.
Da anni si parla di emergenza educativa usando il sostantivo per giustificare infinite analisi che rimangono inefficaci sino a che non restituiamo alla parola “emergenza”
il suo significato: ciò che affiora dall’indistinto dell’abitudine e degli schemi rassicuranti, ciò che diventa talmente evidente che non si può più ignorare, ciò contro cui si va a sbattere.
L’emergenza educativa è l’unico luogo reale per poter oggi educare: non è paradossale che nell’epoca di maggior produzione nella storia umana di sussidi educativi si faccia così fatica a educare? Il punto è allora altrove: non guardiamo l’emergenza, che è la spinta di qualcuno che vuole nascere, perché la vita di prima non basta più. E che cosa emerge? Una fragilità di cui la pandemia è stata un acceleratore e non la causa, una fragilità dovuta a due povertà più antiche: relazioni buone e cultura della vita (che ispira destini e vocazioni, da non confondere con il dilagare delle retoriche della vita, ideologie che si illudono di far cultura, ma in realtà propongono/impongono solo comportamenti).
Da queste povertà dipende la mancanza di speranza sul futuro e quindi la paralisi sul presente, resa possibile dalla dolcezza anestetizzante dell’eterno presente dei social, che ci fanno dimenticare di avere un corpo per vivere, amare, soffrire, crescere, offrendoci una vita “schermata”, disincarnata, e quindi insipida. Ma noi più simili a una pianta che alle macchine a cui vogliamo assomigliare, se non apparteniamo, se non abbiamo terra, se non siamo curati, se non affrontiamo le stagioni, non produciamo lo stelo, non riceviamo il nostro destino, venire alla luce, e non possiamo dar frutto.
Nel mio dialetto quando non si conosce una persona, si chiede in giro: «A chi appartiene?». Il cappellano del carcere da cui sono fuggiti i ragazzi a Natale, don Claudio Burgio, che ha fondato una comunità (Kayros) per il loro recupero (quello che oggi spesso manca è la “comunità ristretta” che offre appartenenza e cultura della vita), ha raccontato che a differenza di quelli di qualche anno fa, gli attuali minorenni carcerati delinquono quasi per caso o per noia, non sanno chi sono, hanno bisogno di ansiolitici e antidepressivi, in balia della loro emotività, il sé non è neanche liquido, è un pulviscolo emotivo, polvere di nulla, altro che stelle. Molti si aggrappano al rap o lo producono loro stessi, un genere musicale che, con le sue sonorità convulse e provocatorie, mette in scena la ricerca tutta adolescenziale della propria forma. Il rap è la musica di un carcerato a cui non resta che odiare, se ne ha ancora la forza, la vita-prigione in cui è finito. Nella canzone significativamente intitolata, come un foto generazionale, Tutti hanno paura , il rapper Ernia canta infatti: «Verrà la notte su di me/ E nell’ombra io cercherò la via/ Stringimi e poi resta con me / Oramai, oramai/ Tutti hanno paura, sai/ Di quello che sarà/ Certezze io non ho/ Non so più difendermi/ Troverò una via/ Per uscire da me/ Senza più difendermi».
Una preghiera di essere salvati, appartenendo a qualcuno, dalla propria selva oscura, dove conduce la paura di non esistere o di non voler più esistere dentro se stessi in giornate in cui il dolore, un misto di noia e ansia, dura quasi 24 ore. Si spera di poter evadere dal carcere (elevato) a vita e di non dover più “difendersi”, cioè non essere sempre corazzati contro tutto e tutti pur di esistere, divorati ora dall’ansia indotta da standard irraggiungibili ora dalla noia dei soliti surrogati di esistenza (possesso, potere e piacere) offerti dal successo, scambiato per felicità. Invece di poter essere, avere una vita autentica e sempre nuova, si oscilla tra i due personaggi intuiti da Italo Calvino come nostri antenati: Agilulfo, il cavaliere tutto armatura ma senza corpo, e il suo scudiero Gurdulù, tutto corpo ma nessuna consapevolezza di sé.
L’emergenza educativa è innanzitutto povertà di appartenenza (qualità delle relazioni). Chi non appartiene a nessuno non può poi essere per nessuno, il vuoto dell’origine impedisce di essere originali, senza radici non può maturare il frutto che solo noi possiamo dare (le dipendenze sono una risposta all’inappartenenza: quando non si appartiene a qualcuno non resta che appartenere a qualcosa). Ma chi può rimanere in piedi se deve lottare con le vertigini date dal vuoto di una vita senza fondamento? Ulisse, di fronte ai mostri della vita, poteva salvarsi dicendosi Nessuno, perché sapeva chi era. Qui ci sono dei nessuno che devono lottare fino a sfinirsi per darsi un nome, un nome che non hanno ricevuto e cercano di procurarsi con energie che non bastano mai. O sei self made , l’uomo/donna che “si fa da solo” (l’ambiguità lessicale con l’uso di sostanze è tragicamente ironica) o sei hikikomori, chiuso in camera e impaurito dall’esistenza. Ernia lo riassume così: «Alcuni adolescenti giocano a far la paranza/ Al polo opposto altri non escono dalla stanza/ Il clima, il virus, la guerra fredda che si riscalda/ Stephen King in confronto ha scritto solo libri per l’infanzia/ Non vedo ‘sto futuro rose e fiori / Salvate almeno i bimbi dai genitori”» Uno scenario horror in cui chi ti ha messo al mondo è colpevole di averlo fatto, e non resta che la violenza o la fuga. La canzone si chiude con una carneficina: «A breve sarò anch’io fuori dai venti/ I grandi mi tengon sotto, i piccoli crescon svelti/ Dovrei donare ai primi la fine che fa Saturno/ Ed ingoiare i secondi per rimandare il mio turno/ È forte perché forte è la vita, ed è spaventosa/ Ognuno se non le ha, lotta con le armi che trova/ Sono solo un middle child che non riposa/ Che non sa che scelte fare perché tutti hanno paura di qualcosa». Uccidere Saturno, gli adulti, e diventare Saturno, divorando i nuovi, pur di rimanere in scena: fare deserto, farsi da soli, farsi qualcuno, tanto la vita non è che un mostro che non dà tregua alla paura e alla rabbia.
Il quadro potrebbe sembrare cupo, ma ho cercato di narrare “l’emergenza in purezza”, cioè dove è più “emergente”: gli adolescenti in fuga dal carcere per cercare il Natale e la lingua della paura e della rabbia, il rap. Ciò che “emerge” è, come dice il titolo di un’altra canzone dello stesso disco di Ernia, Qualcosa che manca , e che cosa è? «Cerco qualcosa di grande, qualcosa che resti». Ecco il punto: abbiamo smesso di dare qualcosa di grande, una visione di mondo appassionante, una cultura della vita, e abbiamo smesso di dare qualcosa, anzi di essere qualcuno, che resta. Tutto si consuma, perché tutto deve essere consumabile. Eppure il disco del rapper si intitola Io non ho paura: come fa a non averne? La strategia di Ernia è un doping esistenziale che però non tutti possono permettersi: «Prove di coraggio tolgono all’amore i forse/ Più che il salto nel vuoto, è il prendere la rincorsa./ Io non ho paura, è un modo per farsi forza».
Ma non basta, non basta mai. Ripetersi di non aver paura è retorica o illusione, come il tentativo del barone di Münchausen di salvarsi dalle sabbie mobili tirandosi per i capelli. Dall’assenza di fondamento ci tira fuori solo un altro che ha i piedi “piantati” sulla terra, qualcuno a cui appartenere, qualcosa che resta. Solo così il sintomo è già cura, la domanda è già risposta, l’emergenza è approdo. E l’approdo è l’adulto a cui viene urlato: «Dimmi perché sono nato, dimmi come nascere ancora e aiutami a farlo». Insomma quello che serve è che le agenzie educative (famiglia e scuola innanzi tutto) facciano sentire “figli” questi “orfani” che hanno tutto per vivere tranne che il perché farlo, tanto da poter dire nell’età fatta a questo scopo: «Io sono nato per questo, questo è quello che sono venuto a portare al mondo, questo è ciò che solo io posso essere e fare». Il coraggio di esistere lo ha solo chi tiene aperte le due direzioni della vita: da e per. Solo se sono “da” qualcuno, posso essere “per” qualcuno. Direzioni sbarrate dal consumismo, dal nichilismo, dall’individualismo: quel combinato virale che chiamo il CONIND dell’anima.
Alessandro d'Avenia, in Corriere della Sera, 19 marzo 2023