Capitolo XXXI
Giuseppe Farinelli e Ermanno Paccagnini, A prova d’untore
Ci addentriamo nei capitoli “infernali” della peste seguendo l’evoluzione dei tre “flagelli” (carestia, guerra e appunto peste) così come ci vengono presentati nel romanzo e la ricostruzione che ci viene proposta da due valenti studiosi quali Giuseppe Farinelli ed Ermanno Paccagnini: a loro è dovuta la cura della pubblicazione degli atti del “processo Mora”, il più celebre dei processi contro gli untori in Milano di quegli anni. L’episodio, documento irrinunciabile per la comprensione della realtà sociale ai tempi della pestilenza, è al centro anche della Storia della colonna infame di Manzoni.
“Frutifera”, centro di traffici e commerci, di fabbriche di calze di seta e di esercizi dell’oro che impiegano ben ventimila donne: questa l’immagine di Milano che nel 1624 il Cheribizo consegna alla storia: una città di 230.000 abitanti (140.000 donne, 90.000 uomini) con botteghe “pien de carne de manz e de castron, tor e vedei, ‘ vache, cavrit de fa’ arost e les”. Ciò che Cheribizo non può sapere è che la fine di quella Milano è dietro l’angolo: nelle carestie del 1627-28, nella peste che assedia lo stato, negli eserciti imperiali accalcati ai confini. Non sa che la sua Milano opulenta sta per divenire affamata e stracciona.
E i segni non tardano a farsi chiari: se il tumulto di s. Martino è presto placato con momentanee demagogie e ricorsi alla forca, insolubile appare il problema di quella folla di mendicanti che si accalca sempre più nelle vie della città, respinta da ospedali e ricoveri stracolmi. E allora è presto fame allo stato puro: con molti che cadono morti per le strade, stringendo spesso tra i denti rimasugli d’un ultimo pasto a base di radici d’erbe o di crusca, di graspi tritati o scorze d’alberi, di fieno cotto o raschiature di botti. E dove non arriva la fame, tocca alla febbre, con cifre che si fanno preoccupanti: sette-ottomila son le persone decedute tra gennaio e luglio 1629. E tutto ciò quando il peggio, ossia la peste, è ancora annidata in Valchiavenna, tra le avanguardie imperiali del De Merode. Quando poi, a metà settembre, le truppe entrano in Lombardia, scatta allora l’esiziale rito dell’infezione, che una fonte cappuccinesca inedita (al pari di numerosi altri documenti reperiti in archivi e fondi sinora negletti) così racconta: “Presero alcuni di questi soldati alloggio in un hospitio nella terra di Colico, pattuendo col taverniere, che lo pagarebbero con tante vestimenta et gliele mostrarono. Piacquero all’huomo semplice, e ricevè quei tali, e diede loro quanto desideravano. Et li soldati in dipartendo lasciarono conforme al consertato le vestimenta. Et ecco mentre la moglie, et poi l’istesso taverniere, et altri di casa, prendono quelle robbe, et le espongono al sole, e vanno contrattandole, tantosto l’uno dopo l’altro s’infermano, e quanti le maneggiarono, tanti morirono. Fu nel principio attribuito questo caso all’horrore, e spavento, che la ferocità di quei soldati soleva apportare dove arrivavano: che erò il padrone quale affittato havea l’hosteria al taverniere, intuendo la morte di lui e restando creditore per li fitti, ordinò che quelle stesse robbe si prendessero in pagamento, et fossero portate nella propria casa di esso lui. Ma condotte che vi furono, quivi prestamente fu scoperto il contagio loro: perché la padrona che similmente espose quelle vesti al sole, vi morì anch’ella di peste con altri figli”.
Casi simili si moltiplicano, e le notizie di queste morti non tardano a giungere in Milano: senza però preoccupare i magistrati della sanità, tutti presi dalle vacanze vendemmiali. È solo a metà ottobre, di fronte alla sempre maggior gravità delle notizie, che partono le prime contromisure, come le grida di proibizione per i baratti coi tedeschi, l’istituzione di bollette attestanti la sanità dei viaggiatori, o la creazione di rastrelli alle entrate dei centri più densamente abitati. Purtroppo, però , è tardi. In città la peste è ormai entrata da giorni, portatavi il 22 ottobre da Pietro Antonio Lovato, giunto dalla zona di Lecco con vari abiti di origine alemanna e deceduto cinque giorni più tardi all’ospedale maggiore con “un flegnione nel brazzo sinistro, et principio di infiammatione sotto all’assela pure sinistra”. Il contagio è immediato, e morti con segni di “certi bognoni” si constatano sia all’ospedale sia nella zona di residenza del Lovato, a Porta Orientale.
Ha allora inizio il valzer, poi consueto, di mezze ammissioni e risentite smentite di morti per peste da parte delle autorità milanesi, per arginare le conseguenze commerciali negative di un bando, a seguito delle relazioni inviate in patria dagli ambasciatori. Ad aiutare le bugie delle autorità concorrono poi sia i mesi invernali, rallentanti il decorso del contagio pur senza estinguerlo del tutto, sia l’atmosfera di festa continua che, iniziata in novembre per la nascita dell’Infante di Spagna, prosegue senza sosta sino al carnevale dell’anno successivo. In tale clima non solo la messa in guardia da parte dei pochi che alla peste credono cade nel vuoto ma, anzi: a parlarne, si può anche esser presi a sassate quali uccelli del malaugurio.
Così , tra avvisi e smentite, feste e morti, ripicche tra città con reciproci bandi e bisticci giurisdizionali tra Ferrer e senato nella latitanza del potere politico (il governatore è a Casale “a far la guerra”), con la stagione primaverile la peste fa lentamente la sua ricomparsa a segnare la totale impreparazione della città. Risulta persino impossibile gestire un lazzaretto, tanto da dover chiedere un aiuto misto di carità e pugno di ferro ai Cappuccini.
Non meno impreparata risulta poi la classe medica, occupata più in dispute sull’esistenza o meno della peste che nella cura dei casi contagiosi, lasciata spesso ai soli barbieri. Non meraviglia allora che alle misure concrete si preferiscano soluzioni religiose, come la celebrazione di quattromila messe per le anime del purgatorio “per placare l’ira di Dio” o che lo stesso governatore Spinola inviti a cercare la salvezza dal contagio con la rimozione di pubblici peccati attraverso una grida contro prostitute bestemmiatori e usurai (“delitto molto frequente” in Milano). Non meno inadeguata si rivela poi la stessa classe politica quando, nel dilatarsi del male e nell’urgenza di altri lazzaretti, tarda per calcoli interessati nella scelta dei terreni.
Il punto più grottesco accade poi ad aprile, quando ormai si ricoverano giornalmente quaranta e più persone in un lazzaretto fuggito dai medici. Alla città non par vero di potersi affidare nelle mani di una vecchia dall’acqua miracolosa che, in cambio dei propri servigi, chiede solo la liberazione del figlio detenuto. Ma gli effetti della cura suonano nefasti, anche per la stessa donna e per forza di cose, se si considera che la ricetta consiste in “giuso di zucca matta, aceto, antimonio preparato, per provocare il vomito, et se ne dava un’onza per mattina, per tre mattine a digiuno alli apestati, et gli faceva vomitare, et andare del corpo”.
In tale situazione di stallo sia decisionale che medico e con un lazzaretto ormai quasi pieno (giungerà a contenere 16.000 persone), oltre che con una mortalità sempre crescente, il 17 maggio si verifica il fatto nuovo di questo contagio. In Duomo, durante la consueta processione serale, qualcuno nota “certe persone che vanno ongendo l’assata di essa chiesa, che divide la parte de gl’huomini da quella delle donne”. Scattano i primi rilievi medici, ma la prima impressione induce a parlare di “burla”. Almeno sino al mattino successivo quando, svegliandosi, molti cittadini ritrovano chiese case e catenacci unti con un grasso “parte che tirava al bianco, e parte al giallo”. La faccenda si ripete ancora nei giorni successivi, nonostante una immediata Grida contro coloro che sono andati ungendo, che però non approda a nulla, se non a provocare linciaggi contro chiunque abbia l’aria del forestiero. Poi, d’ un tratto, tutto cessa: e resta la normalità di frequentatissime processioni, alternantisi a carri di morti sempre più colmi per gli ormai settanta decessi anche in una sola notte.
Il culmine accade martedì 11 giugno, con la grande processione col corpo di s. Carlo, cui partecipa fidente tutta la città , infetti inclusi. Le conseguenze nei giorni successivi suonano terribili: oltre duecento morti al giorno, un’impennata nei ricoveri ai lazzaretti, un numero ormai imprecisato di case chiuse. Nasce allora la necessità da parte del popolo di una spiegazione, e la visualizzazione del contagio si chiama allora: “malignità d’alcuni” che vanno infettando la città “con polveri, et onti velenosi, e pestiferi”. Ed è l’inizio di una vera e propria caccia all’ untore, che non conoscerà sosta sino a fine anno e solo col decrescere del contagio. La data storica è il 22 giugno 1630, giorno inaugurale di quel Processo agli untori che, in seguito alla collazione effettuata non solo su copie a stampa ma anche meno note copie manoscritte, è ora leggibile nella forma più integrale possibile e con accenti sconosciuti. E sin da quell’attacco memoriale-narrativo che vede il notaio Oltramonti recarsi, col capitano di giustizia, a raccogliere a s. Alessndro la deposizione che dà il via al processo:
“Hieri passando io per la contrada della Vedra de’ Cittadini, che fu la mattina viddi gran rumore di persone, le quali con paglia accesa andavano abbruciando in diversi luoghi le muraglie delle case, [...] e dimandando io [...] che cosa significasse questo abbruciare delle muraglie, mi risposero, che quella mattina un genero della comar Paola che fa il commissario sopra la sanità era stato visto da alcune donne a ungere le muraglie con questi onti”.
Chiacchiere di donne: che però non tardano a mutarsi nelle spasmodiche urla di accusati sottoposti a tortura, o a strazianti quanto inutili proteste d’innocenza, o a costruzioni di castelli accusatori in nome della delazione per verità o interesse, difesa e debolezza, o sotto non mantenute promesse di impunità. E vi passano in molti: dai primi accusati (e giustiziati) come il commissario Piazza detto il Duchino e il barbiere Mora, ai due Migliavacca (padre e figlio), a una schiera di uomini e donne senza volto senza storia e talvolta senza un nome, verbalizzati nelle urla di dolore e, quindi, arrotati scannati e infine bruciati per passare poi a nomi di qualità come don Giovanni de Padilla, figlio del castellano di Milano, o i banchieri-pagatori (Turconi e Sanguineti, Lucino e Cinquevie), una volta che faccia capolino l’idea stessa di complotto. Storie grandi e piccole, prese in un delirio collettivo inglobante tante altre piccole storie di brulicante quotidianità popolare, fatte di taverne e piccoli imbrogli, espedienti di sopravvivenza, magie e superstizioni, ben riassunte dallo stralcio qui riprodotto dell’interrogatorio di Stefano Baruello: il più assurdo e fantasioso, colorito e grottescamente teatrale con quei demoni che stringono la gola e conseguenti esorcismi.
“Dopo che ebbe detto queste cose, essendogli replicato che non erano verosimili ed esortato perciò a dire la verità , rispose: “u u u se non lo posso dire”, stendendo il collo, e tremando in tutto il corpo, e dicendo: “vostra signoria mi aggiuti, vostra signoria mi aggiuti”. “Dettogli, che se io sapessi quello che vuol dire potrei anco aggiutarlo, che però accenni, che se s’intenderà in che cosa vogli essere aggiutato s’aggiuterà potendo. Allora di nuovo cominciò a contorcersi, ad aprire le labbra, stringendo i denti e stridendo alla fine disse: “Vostra signoria mi aggiuti, Signore ah Dio mio, ah Dio mio [...]! Si alzò e, volendo parlare, emise nuovamente suoni indistinti, sporgendo il collo, stringendo i denti poiché si affannava ad esprimersi senza riuscirvi e finalmente disse: “Quel prete francese”. Dette queste parole, subito si gettò a terra e cercò di nascondersi in un angolo lontano dal banco, proferendo: “ah Dio mi, ah Dio mi, aggiutatemi, non mi abbandonate”. Tutto ciò in una città che, ai primi di luglio, appare agli occhi dell’ambasciatore veneto come “carcere di morte” e “cimiterio”: con sei-settecento decessi giornalieri (e una prima stima di 40.000 morti), cadaveri lasciati insepolti per più giorni nelle strade, persone sane che si ricoverano al lazzaretto per poter mangiare, e un fetore che aleggia insopportabile per tutta la città causa l’insufficienza di sepolture e monatti. Ma anche dopo la terribile esecuzione del Piazza e del Mora il primo agosto (“collocati sopra un carro, siano condotti al solito posto del patibolo per via siano morsi con tenaglie infuocate nei luoghi dove peccarono ad entrambi si tagli la mano destra davanti la barbieria del Mora spezzate le ossa secondo il costume, siano messi alla ruota e la ruota si levi in alto e si intreccino vivi in quella dopo sei ore siano strozzati e subito i loro cadaveri siano bruciati e le ceneri gettate nel fiume”), non solo le unzioni non paion cessare, ma è facile attribuire loro la ragion prima di tanta mortalità. E si parla allora di un vero e proprio esercito di millecinquecento untori, tra i quali militerebbero frati donne e bambini, tutti attenti a sporcare case e vestiti, ad avvelenare messi e cibo per i poveri, a ungere fiori e scale di chiese e di forche.
La frenesia pare toccare il punto più alto a metà agosto, quando la mortalità tocca il migliaio di decessi giornalieri. E qui sono persone che si dichiaran fededegne ad attestare che il 16 agosto il diavolo in persona è comparso in città su un cocchio con sedici paggi, per discutere coi canonici del duomo sul problema della Trinità.
Poi, sarà l’autunno oppure il diminuito numero di abitanti, tutto pare di colpo acquietarsi: calano mortalità e unzioni, rallentano gli interrogatori, si svuotano i lazzaretti, e la giustizia procede alle ultime esecuzioni capitali. Si giunge così, senza scosse, alla Pasqua del 1631, quando si decide di procedere a un bilancio. E i risultati sono terrificanti: dei 230.000 abitanti rispondono all’appello delle parrocchie solo in 47.462. Eppure non c’è tempo per piangere. E in una città ancora al bando dai traffici (verrà liberata il 7 febbraio 1632) si pensa ormai ai provvedimenti di ricostruzione economica. In un clima di ritrovata euforia, tutto pare dimenticato. Si può persino far della bonaria ironia su una nuova unzione del mese di maggio. E può così passare nella indifferenza generale anche il volutamente tardo provvedimento assolutorio col quale il senato, il 28 giugno 1633, dichiara che il nobile Padiglia e i vari banchieri non solo devono “essere dichiarati innocenti”, ma non devon essere “più oltre molestati per questa causa”.
Giuseppe Farinelli - Ermanno Paccagnini, “A prova d’Untore”, in Il Sole 24 ORE, domenica 9 ottobre 1988