Uno degli episodi più raffigurati della vita del santo è quello della sua vocazione. Qui vediamo il momento in cui Levi, esattore delle tasse, riceve la chiamata di Gesù (Marco 2,14); essa si materializza da una parte nel gesto di Cristo, mentre l’apostolo risponde immediatamente all’appello alzandosi in piedi e levandosi il cappello. Sul tavolo vi sono i libri contabili e la cassetta dei denari, che Matteo si accinge ad abbandonare per seguire la chiamata di Gesù.
Il gesto di Gesù con il braccio teso rimanda a quello, analogo, dipinto da Caravaggio nella Vocazione di san Matteo nella cappella Contarelli di San Luigi dei Francesi, in Roma.
Dopo la chiamata, Matteo organizza in casa sua un grande banchetto: “Poi Levi gli preparò un grande banchetto nella sua casa. C’era una folla di pubblicani e d’altra gente seduta con loro a tavola” (Luca 5,29).
La grandissima tela (555x1280 cm) fu commissionata a Veronese dal convento domenicano dei santi Giovanni e Paolo a Venezia, per sostituire un’Ultima cena di Tiziano distrutta da un incendio. Veronese, dovendo giustificare davanti all’Inquisizione la presenza di personaggi come buffoni, nani, ubriachi, ecc., mutò semplicemente il titolo del quadro, e l’Ultima cena divenne Cena in casa di Levi, alla quale Gesù prese comunque parte, ma che per il suo carattere poteva giustificare una composizione più esuberante.
Matteo scrisse il suo Vangelo – caratterizzato dalla presenza di cinque importanti discorsi di Gesù – dopo Pentecoste. Egli pone in risalto la genealogia umana di Gesù, e intende soprattutto dimostrare che Gesù è il Messia che realizza le promesse dell’Antico Testamento. Come evangelista è ritratto con espressione severa, in età avanzata proprio perché la sua chiamata fu tarda, e con una folta barba.
1561 ca., Genova, Chiesa di san Matteo.
Come afferma la Legenda aurea di Jacopo da Varazze, Matteo si recò a predicare in Etiopia, contrastando i terribili malefici di due maghi locali, Zaroes e Arphaxat, i quali, alla fine, gli scatenarono contro due draghi che sputavano fuoco di zolfo dalla bocca e dalle narici. Matteo, scrive Jacopo, “munitosi del segno della croce, andò sereno incontro a essi. Appena i draghi lo videro, subito si accoccolarono ai suoi piedi e si misero a dormire”. Infine, l’apostolo ingiunge ai draghi, in nome di Dio, di andarsene, e questi, “senza far male a nessuno, se ne andarono subito via”.
L’opera si discosta dalla tradizione secondo cui Matteo sarebbe stato ucciso sull’altare mentre celebrava la messa. Qui non indossa paramenti sacri e ostenta anzi un abito dimesso; accanto a lui vi è il libro del Vangelo e, mentre il sicario lo trafigge con la spada, l’angelo sorregge la penna che sta per cadergli dalle mani. Si noti, in primo piano, il particolare dei piedi sporchi, evidente omaggio a Caravaggio, il cui san Matteo e l’angelo era stato contestato dai committenti proprio a causa di un particolare analogo.