Esiste un nuovo (o forse antico?) modo di viaggiare. In tempi di low cost e fast food, la riscoperta del valore della lentezza è un modo per riconquistare lo spazio dell'esperienza. Scriveva Heine: «L'uomo ha ucciso lo spazio, a noi non rimane che il tempo». Imparare a lavorare sul ritmo, a viaggiare lentamente, è una sfida per godersi, in un mondo che pare bruciare ogni cosa a tutta velocità, il lusso di perdere tempo. Ecco perché possiamo farci conquistare dalle gioie del vagabondaggio, delle opportunità del nuovo pellegrino, delle infinite possibilità del viaggiare con lentezza, secondo i propri tempi, scoprendo magari l'essenza stessa del viaggio.
Com'è nata l'idea di scrivere un libro sullo slow travel?
Tutto è cominciato con un senso di ribellione. Amo viaggiare, e non condivido per niente la tesi di chi sostiene che ormai, nell'epoca della globalizzazione e del turismo di massa, tutto è già stato detto, visto, raccontato. La trovo un'ipotesi triste, un modo cinico di guardare al mondo. Però è indubbio che, dal punto di vista strettamente geografico, ogni angolo del Pianeta è già stato scoperto. Così com'è indubbio che oggi, con i voli low cost, è molto più semplice collezionare mete turistiche anche lontane, raggiungere Paesi esotici che prima erano appannaggio solo di una ristretta cerchia. Paradossalmente, la democratizzazione del viaggio ha rappresentato anche un po' l'inizio della sua fine. Allora mi sono chiesta: come si può fare a recuperare il valore dell'esplorazione, della conoscenza, come si può riuscire a scovare ancora qualcosa di nuovo e inaspettato? La risposta che mi sono data è stata proprio che, se non si può cambiare lo spazio nel quale ci muoviamo, si può cambiare il tempo che dedichiamo a questo movimento. Velocità diverse garantiscono emozioni diverse: è proprio da qui che bisogna partire.
Ma perché bisognerebbe viaggiare lentamente in un'epoca in cui è possibile raggiungere l'altra parte del mondo in pochissimo tempo?
Arrivare dall'altra parte del mondo in pochissimo tempo non è viaggiare, è semplicemente spostarsi, passare da un luogo all'altro senza vedere quello che ci sta in mezzo. A questo proposito si parla di “mobilità itinerante”, di un modo di andare in cui conta solo la meta, e non esiste più il percorso, il tragitto: insomma, non esiste più il viaggio.
Ed è rallentando, praticando lo slow travel che il viaggio riacquista valore?
Sì, perché si ha il tempo di trovare nuove strade, di aprirsi a incontri altrimenti impossibili. La filosofia slow ci dà ancora la possibilità di smarrirci, rigettando le regole dei cosiddetti professionisti del viaggio e trovando, ognuno per sé, il proprio ritmo, la propria andatura. L'importante è di non trasformare tutto questo in una moda, in qualcosa di effimero proprio come ciò che critica.
Lo slow traveller può essere definito un anti-turista?
A me non piace questa definizione, anche se si tende, negli ultimi tempi, a farne largo uso. Mi pare che l'antiturista (sempre che esista davvero), nella sua volontà di essere a tutti i costi contro qualcosa, obbedisca per primo a una sorta di credo che lo obbliga ad andare in determinati posti, a comportarsi in una determinata maniera, a scegliere determinati mezzi di trasporto. In questo modo non si è liberi, non ci si abbandona più alla felicità della scoperta, ma ci si costruisce da soli una gabbia dai confini molto rigidi. In realtà, non so dire con precisione chi o che cosa sia lo slow traveller, e forse il bello è proprio questo: si può andare piano per moltissimi motivi, non ci sono regole, non ci sono ricette, solo l'ostinata, e anche un po' impertinente, volontà di aprirsi agli infiniti possibili del reale, senza avere il timore di quello che si può trovare proprio lì, dietro il prossimo angolo di strada.
E la gabbia del turista qual è?
Più che una gabbia, in questo caso si tratta di un vero e proprio controsenso. Si fa di tutto per prendere le distanze dalla quotidianità, per partire lasciandosi alle spalle la frenesia dei ritmi lavorativi e dei doveri della vita di sempre, e poi ci si ritrova magari a fare un tour organizzato in cui si è costretti a seguire delle tabelle di marcia che fanno rimpiangere la sveglia dei giorni feriali. La verità è che il virus della velocità è riuscito a infettare anche il tempo libero, e tutti presi come siamo dall'ossessione di riempire ogni singolo momento non siamo più in grado di gettare uno sguardo critico sulle cose, di formarci una nostra opinione e magari di contestare il sistema nel quale, volenti o nolenti, ci troviamo inseriti.
In conclusione, chi è il vero viaggiatore?
Forse, semplicemente, quello che parte sempre. E non arriva mai.
Luca Rastello, Alta Velocità, quel difficile ponte per l’Europa
Santa Apollonia è la stazione principale. Due binari per convogli suburbani, un treno per Bilbao, una tettoia di ferro e vetro affumicato, aria dall'oceano e dal Tago. Lisbona se ne sta sospesa fra un passato nostalgico d'impero e un futuro internazionale che non verrà più, qualche vezzo liberty e il rimpianto per la promessa ̶ tradita ̶ di diventare la sorgente del mitico “Corridoio 5”, l'asse Lisbona-Kiev che doveva unire l'Europa dall'Atlantico alle steppe con il miracolo delle grandi opere e dell'alta velocità e che invece perde le ali e anche pezzi del suo ventre e del suo cuore. Quinto pilastro di un sontuoso progetto di viabilità europea stabilito nelle conferenze di Creta e Helsinki a metà degli anni Novanta, oggi quel corridoio, spesso nominato (soprattutto a proposito di un suo piccolo tratto, quello tra Torino e Lione), ma mai percorso per intero, rimane sostanzialmente un mistero. Nella sua articolazione, nella sua utilità, nelle prospettive.
E il mistero comincia proprio dalla testa. Il 21 marzo scorso il governo portoghese ha annunciato l'abbandono di ogni progetto di alta velocità. Una decisione accolta con flemma: oplà, il Portogallo non c'è più. Del resto, lo vedremo, anche l'Ucraina non si sa bene dove sia andata a finire. Resta in piedi però il sogno di un'Europa unita da una rete di infrastrutture viarie, ma nella forma di una ragnatela di tratti a media percorrenza stesa su tutto il continente e chiamata “Ten-T”. Quanto al Corridoio 5, ridimensionato, viene oggi ribattezzato Corridoio Mediterraneo.
Lasciamoci alle spalle Santa Apollonia, dunque, e anche l'ambizioso complesso della Stazione del Mare (un solo treno al giorno per Madrid, undici ore, come dire che tanto vale andarci a piedi), ricordo dell'Expo del '98. Non si va a Madrid, però: rotta a sud. E non in treno, in corriera, fra nuvole-batuffolo, colline, sorgenti africane, mulini (eolici). Sommerso il Portogallo, la penisola iberica torna a sdraiarsi dove l'aveva immaginata Strabone, che qui collocò le porte dell'oltretomba: siamo ad Algeciras, di fronte al Marocco, un tiro di lancia da Gibilterra. È qui che la Commissione Europea vuole la fonte del Corridoio Mediterraneo. Palazzine bianche in una conca, un porto dai ritmi frenetici, povertà magrebina, disoccupazione al 40%.
I migranti marocchini si concentrano a Algeciras per essere vicini alle famiglie: «Se il lavoro va male torno prima e spendo meno», racconta Said Muhammad, titolare di un'agenzia di viaggi. Non ha mai sentito parlare di alta velocità. Don Carlos Fenoy, invece, presidente della Camera di commercio locale, è fra i più convinti sostenitori dell'utilità del Corridoio, solo che lo intende in una maniera per noi italiani sorprendente: «Alta velocità per le merci? Lei è matto! Il consumo energetico e l'usura dei carri oltre gli 80 chilometri orari aumentano esponenzialmente i costi. E poi treni veloci e nodi inadeguati significano intasamenti nell'ultimo chilometro: pensi a una grande autostrada con piccoli caselli». La Spagna del resto sta riducendo drasticamente gli investimenti infrastrutturali. Non solo: molta parte dei finanziamenti è destinata ad alimentare la rete autostradale, non le ferrovie. Eppure, nonostante i tagli, l'alta velocità passeggeri da Algeciras a Bobadilla (raccordo verso Madrid) si farà. E si farà grazie a una soluzione sorprendente.
Per scoprirla dobbiamo raggiungere Ronda attraversando un labirinto di alture, forre, aranceti in verticale, voli di aquile, grida d'uccelli (ptuiit!). Un solo binario corre tra i boschi, su ogni traliccio un nido di cicogna, su ogni albero il parassita del vischio. Come potrà una linea ad alta velocità attraversare senza danni questa meraviglia? Rafael Flores, responsabile del nodo ferroviario di Ronda, spiega: «Semplice. Per ottenere lo scartamento adatto ai treni veloci aggiungiamo una terza rotaia all'interno delle due guide sulla linea esistente: i treni lenti correranno sullo scartamento spagnolo, quelli veloci su quello internazionale». Tutto su un solo binario? «Certo. Con un buon piano di movimento gli incroci si fanno nelle stazioni». Senza cemento, e senza investimenti colossali.
Ma lasciamo anche questo tema alle analisi logistiche, il nostro compito è sfiorare le facciate elegantemente asburgiche, i caffè e i tram colorati di Miskolc, pazientare in coda alla frontiera dell'Unione e correre in Ucraina. Dopo Uzhgorod, la strada si raggomitola fra le valli dei Carpazi, villaggi di legno e foreste piene di mostri e leggende. Da qualche parte ci sarà pure un trenino, ogni tanto spunta una stazioncina, si intravede un binario, raramente un cavo per la trazione elettrica. Poi il paesaggio si apre alle piane galiziane, ecco le botteghe color cannella di Drohobycz e le memorie dello sterminio che ha cancellato la civiltà degli shtetl askhenaziti, la cultura chassidica che ha influenzato metà del Novecento letterario europeo e americano.
Raggiungiamo una delle città più belle d'Europa. Leopoli, fasto imperiale, nido di spie, capitale yiddish. Oggi duecentomila pendolari ogni giorno e un'elegante stazione. Mancano meno di 600 chilometri a Kiev, ma servono 15 ore, e si viaggia di notte. In terza classe i letti sono incolonnati a tre a tre a vista, in cima alla carrozza c'è una stufa con fuoco a legna e un capovagone dal cappello rigido offre il tè in bicchieri con supporto in metallo lavorato (da restituire, purtroppo). La notte è un mercato, si può mangiare insieme, fare affari, chiacchierare. Come all'altro capo d'Europa, nessuno ha mai sentito parlare di corridoi, e poi c'erano gli stadi da fare e qui non c'è un'Unione che finanzia, insomma a poco a poco arriva il sonno. Ci si sveglia a Kiev, stupiti, stropicciati: la stazione alterna il moderno allo stile imperiale russo, l'orizzonte è abolito da barriere di torri a trenta piani che disegnano il futuro cementizio delle metropoli europee, ma i treni a motore, antiquati e colorati, percorrono tratte i cui soli nomi bastano a sognare: Chisinau-Pietroburgo, Odessa-Novgorod, Volgograd-Danzica. La nostra missione è compiuta, possiamo tornare indietro dopo 3.200 chilometri percorsi lungo un corridoio che non c'è. Occhi e memoria ingolfati da frammenti di immagini sfiorate più o meno in corsa. Nelle orecchie grida d'uccelli: ptuiit.