Esiodo, Necessità del lavoro
Le opere e i giorni è un poema didascalico (che mira cioè a trasmettere insegnamenti) scritto nell'VIII secolo a.C. dal poeta greco Esiodo. In esso si illustra la necessità del lavoro da parte dell'uomo, fornendo consigli pratici per l'agricoltura e relativi ai giorni del mese nei quali compiere determinate attività. Il poeta si rivolge al fratello Perse, invocando per lui la benevolenza di Demetra, sorella di Zeus la "Madre Terra" dei greci, dea del grano e dell'agricoltura.
L'uomo migliore è colui che tutto capisce da sé,
sapendo ciò che in séguito e infine meglio sarà;
capace è anche colui che obbedisce a chi bene gli parla;
ma chi non sa capire da sé né ciò che sente da altri
si pone nel cuore, quello è un uomo da poco.
Ma tu ricorda sempre i miei consigli:
lavora Perse, stirpe divina, perché Fame
ti odî e t'ami l'augusta Demetra dalla bella corona,
e di ciò che occorre per vivere t'empia il granaio.
Fame sempre è compagna dell'uomo pigro;
e uomini e dèi hanno in odio chi, inoperoso,
vive ai fuchi senz'arma somigliante nell'indole,
i quali la fatica dell'api consumano in ozio,
mangiando; a te sia caro occuparti di opere adatte
perché del cibo nella sua stagione raccolto ti si empia il granaio.
Grazie al lavoro gli uomini hanno grandi armenti e son ricchi,
e lavorando sarai molto più caro agli dèi
e anche agli uomini, perché i pigri hanno in odio.
Il lavoro non è vergogna; è l'ozio vergogna;
se tu lavori, presto ti invidierà chi è senza lavoro
mentre arricchisci; perché chi è ricco ha successo e benessere.
Per te, dove t'ha posto la sorte, è meglio il lavoro.
Distogli dai beni degli altri l'animo sconsiderato
e al lavoro rivolgiti, pensa ai mezzi per vivere, così come io ti consiglio.
Non è una buona vergogna quella che accompagna l'uomo indigente,
la vergogna che gli uomini molto danneggia o aiuta;
alla miseria si aggiunge vergogna, alla fortuna l'audacia.
La ricchezza non dev'esser rubata: è molto migliore quella che danno gli dèi;
qualcuno con la violenza può conquistare un gran bene
o rubarlo con le parole, come assai spesso
suole accadere, quando il guadagno inganna la mente
dell'uomo, e allora Sfrontatezza vince Vergogna;
ma allora facilmente l'abbatton gli dèi, distruggon la casa
a quell'uomo, e per poco tempo la fortuna lo segue.
Pietro Ichino, Le opportunità del lavoro
Il mercato del lavoro in Italia è davvero troppo complesso perché un giovane possa affrontarlo da solo senza che gli venga spiegato da qualcuno?
Non è che da noi il mercato del lavoro sia più complesso rispetto agli altri Paesi evoluti. È che in tutti i Paesi evoluti i giovani hanno maggiori difficoltà di ingresso rispetto alle persone mature, ma negli altri Paesi ci sono servizi di orientamento scolastico e professionale che funzionano molto meglio che da noi.
Che cosa rende più complesso l’ingresso per i giovani?
Innanzitutto i giovani che escono da un ciclo scolastico non hanno una storia professionale da cui si possano trarre informazioni sulle loro attitudini e caratteristiche: il che costituisce per loro un handicap rispetto a chi ha qualche esperienza di lavoro alle spalle. Inoltre i giovani, rispetto alle persone mature, dispongono molto meno delle reti professionali e di altro genere, necessarie per avere le informazioni sulle occasioni di lavoro esistenti e le “presentazioni” eventualmente necessarie.
I più giovani hanno ancora qualche possibilità di trovare un lavoro in Italia?
Guardi, nel corso del 2012 – probabilmente l’anno peggiore della crisi peggiore degli ultimi ottant’anni – in Italia sono stati stipulati dieci milioni di contratti di lavoro, di cui un 1,7 milioni a tempo indeterminato. E ancora più sorprendente è che questi contratti erano abbastanza ben distribuiti fra nord, centro e sud del Paese: in Sicilia nello stesso 2012 un milione e mezzo di contratti, di cui 189 mila a tempo indeterminato. Non sono, ovviamente, nuovi posti: nello stesso anno, infatti, le cessazioni hanno superato le assunzioni; ma sono occasioni di lavoro che si sono aperte, alle quali sarebbe stato possibile concorrere. Dunque, anche nel momento più nero della crisi non è vero che sia assolutamente impossibile trovare un lavoro. Né per chi ha meno di trent’anni, né per chi ne ha più di cinquanta: uno su sei dei nuovi contratti è stato stipulato con ultra-cinquantenni. Certo, le persone professionalmente più deboli hanno bisogno di un aiuto, che oggi in Italia viene dato loro troppo poco.
Un giovane per trovare lavoro deve accettare qualsiasi tipo di contratto gli venga offerto?
Un buon servizio di orientamento serve anche per avere maggiore possibilità di scelta e per avere un consiglio da persone competenti su che cosa è bene accettare e che cosa si può rifiutare.
In linea generale, è meglio cercare il lavoro della vita o accettare qualsiasi cosa rinunciando ai propri sogni?
Cercare il lavoro che meglio corrisponde alle proprie aspirazioni, se sono aspirazioni realistiche, ragionevoli, è quello che tutti i giovani devono fare. Ma essi non devono commettere l’errore di restare disoccupati in attesa di trovarlo, quel lavoro ideale. Ai miei laureati che venivano a dirmi che non trovavano subito un lavoro corrispondente a quello che avevano studiato suggerivo di andare per tre mesi a Londra, farsi assumere, per qualsiasi lavoro, da un’agenzia di lavoro temporaneo: receptionist, commesso di negozio, magazziniere, merchandiser, o qualsiasi altro mestiere. Nel peggiore dei casi, tornavano in Italia avendo perfezionato il loro inglese e avendo un primo “mattoncino” nel loro curriculum, molto significativo perché mostrava la loro intraprendenza, curiosità, mobilità, adattabilità.
E in Inghilterra lo trovavano, il lavoro?
Sì, perché lì il mercato del lavoro è molto più fluido che da noi. E anche solo il fatto di parlare bene l’italiano costituisce una qualifica richiesta in diversi settori. Alcuni miei studenti, poi, già in Inghilterra sono passati dai livelli professionali più bassi a quelli più alti: uno che era partito come receptionist di albergo è diventato il capo del servizio di sicurezza di un altro grande albergo; uno che era partito come commesso di grande magazzino è diventato il numero due del servizio personale.
Sta suggerendo a chi cerca lavoro di lasciare il Paese?
Il mio non era un invito a trasferirsi stabilmente all’estero: era solo un incoraggiamento a essere mobili e a non rassegnarsi mai a rimanere con le mani in mano. Era un po’ la concretizzazione di quel che avevo insegnato loro sul piano teorico, per incoraggiarli a ribellarsi al modello tipicamente mediterraneo del ragazzo che resta attaccato alla famiglia fino a trent’anni e oltre: la probabilità di trovare il lavoro che si cerca, infatti, aumenta in ragione del quadrato dell’aumento del raggio della propria disponibilità a muoversi. Detto in termini più semplici: se il raggio di mobilità raddoppia, le occasioni di lavoro si moltiplicano mediamente per quattro; se il raggio si decuplica, le occasioni di lavoro si moltiplicano mediamente per cento. Certo, occorre anche avere buoni servizi di informazione sulle occasioni esistenti; e questi in Inghilterra, come in Olanda e nei Paesi scandinavi abbondano più che altrove.
Sergio Bini, La Regola benedettina: uno strumento attuale per la gestione delle imprese
Da quasi quindici secoli la regola di san Benedetto continua a costituire, silenziosamente, la base della struttura organizzativa, produttiva e culturale dell’Italia, dell’Europa e ̶ più in generale ̶ del mondo occidentale.
Sono sempre di più gli studiosi nel mondo che dedicano le proprie energie, i propri studi e le proprie ricerche per approfondire sia il testo della Regola, sia le sue applicazioni che hanno consentito nei secoli di far migliorare progressivamente la qualità della vita e di far accrescere la cultura dei popoli, a partire da quelli gravitanti nelle aree di influenza dei monaci e dei monasteri.
Tra questi, non sono pochi quelli che ritengono la Regola benedettina un testo che vada ben oltre la dimensione “religiosa”; essa è ritenuta, soprattutto, una guida metodologica che aiuta a mettere ordine nella vita delle persone e delle comunità (organizzazioni; aziende; imprese; reti di imprese; gruppi; famiglie; sistemi; network e così via). Così si esprime Skrabec jr: «L’efficienza organizzativa è l’eredità che esse hanno lasciato al nostro secolo, alla cui base troviamo alcuni principi benedettini: armonia, lavoro di gruppo e stabilità».
Ancora oggi, senza saperlo, dopo 1500 anni la Regola di Benedetto da Norcia continua a regolare la vita e le relazioni all’interno delle piccole imprese; infatti, con la guida “paterna” del proprietario-imprenditore si tende a rafforzare una serie di principi che non regolano solo le ore, i riti, le attività, i ruoli, i compiti e le responsabilità di ciascun protagonista, ma anche i processi, le teorie e le metodiche della gestione per la qualità e l’innovazione traspaiono in modo sufficiente chiaro dalla lettura attenta e approfondita della Regola e delle sue declinazioni applicative, soprattutto nei riguardi dei seguenti ambiti:
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l’eliminazione delle negatività all’interno delle organizzazioni;
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la capacità di integrare nel lavoro le dimensioni materiali (tangibili) con quelle spirituali (intangibili);
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la possibilità di raggiungere il vertice della “piramide dei bisogni” di Maslow (cioè l’autorealizzazione) da parte di tutte le persone che vivono la Regola;
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lo sviluppo di una organizzazione capace di creare, con continuità incrementale, conoscenze, competenze e innovazioni. La Regola ha svolto in questi quindici secoli, nella realtà dei fatti, il ruolo indiscutibile di vera e propria antesignana dello standard internazionale ISO 9001 (prima) e, successivamente, dei principi-base del Total Quality Management (la cosiddetta Qualità Totale).
La Regola, infatti, ha introdotto concetti oggi attualissimi come: miglioramento continuo; circoli della qualità; team work; leadership; brainstorming; standardizzazione; benchmarking; autovalutazione; just in time; knowledge management e così via.
La Regola – sintetizzata egregiamente dallo slogan “ora et labora” – è quindi da considerare un “semplice” progetto di vita, un insieme di principi chiaramente più vicino al significato originario della parola latina regula, o “guida”, piuttosto che al termine lex o “legge”.
Infatti, regula – la parola che oggi viene tradotta in modo affrettato con il termine “regola” – nell’accezione originaria significava, invece, “indicatore stradale”, oppure “ringhiera”; cioè, qualcosa a cui aggrapparsi e sorreggersi nel buio e/o nei momenti di stanchezza, qualcosa che indica la strade che aiuta ad andare avanti verso una determinata (corretta) direzione, nel “deserto della vita” quotidiana.
Non è, quindi, solo una serie di istruzioni, ma costituisce una “guida” che aiuta concretamente e progressivamente a costruire uno stile di vita!
Forse anche per questo, la Regola costituisce uno strumento estremamente vivo e sempre attuale e la si può applicare anche in un momento così complesso e difficile come quello attuale, sia per i singoli, che per le organizzazioni.
Con la Regola, la persona viene posta al centro dell’organizzazione.
La Regola benedettina deve essere considerata una guida di sapienza per l’uomo di sempre – compreso (o forse ancor di più) per quello di oggi – per poter:
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comprendere meglio l’uomo, come entità e come singolo;
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comprendere meglio il gruppo;
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costruire un processo virtuoso nel gruppo, cioè un miglioramento continuo dei singoli, della comunità delle attività svolte.
In tale ambito metodologico, la “sapienza” per san Benedetto è un qualcosa di saporoso, di interessante, che consente:
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di penetrare nei significati delle cose e delle azioni umane;
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di conoscere l’uomo in tutte le sue manifestazioni evidenti ̶ come le parole e le azioni ̶ e nascoste, ma non del tutto (i cosiddetti “segnali deboli”).
Le tre virtù principali fissate dalla Regola per il processo di miglioramento – che devono essere prima riconosciute, assimilate e poi esercitate – sono:
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l’obbedienza, che è un mettersi in ascolto (ob-audire), in piedi, e pronti ad agire secondo saggezza e conoscenza (cioè, le competenze) [capitolo 5°];
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il silenzio, che non è un vuoto mentale o l’assenza di proposte, ma il momento e il modo che le fa maturare. Collegate al silenzio, e funzionale ad esso, ci sono la sobrietà e la proprietà di linguaggio [capitolo 6°];
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l’umiltà, che è un sentirsi permanentemente vicini alla terra (humus) – cioè vicini ai problemi ed attenti alle realtà quotidiane –. L’acquisizione di questa virtù consente di avere la reale percezione della propria fallibilità e della propria fragilità in ogni situazione [capitolo 7°].
Le suddette tre “virtù” vanno, comunque, declinate alla luce di un quarto concetto unificante, quello di persona, come essere razionale, libero e autocosciente.
[…]
Di tutta la Regola si vogliono riportare, di seguito, solo le prime righe del Prologo che recitano testualmente così:
«ASCOLTA, figlio, i precetti del maestro, porgi attento il tuo cuore, ricevi di buon animo i consigli di un padre che ti vuole bene e mettili risolutamente in pratica, per ritornare con la fatica dell’obbedienza a Colui dal quale ti eri allontanato».
Da una lettura particolarmente attenta (ed ovviamente, anche, un po’ laica) di queste righe traspaiono le fasi plan-do-check-act del modello operativo a base del miglioramento continuo rappresentato dal ciclo (PDCA) di Deming; che, quindi, risulterebbe poter essere stato tracciato con circa 1500 anni di anticipo. […]
La comunità attribuisce maggiore importanza all’orgoglio del lavoro piuttosto che all’individuo. Si tratta di qualcosa che può essere attuato solo tramite il lavoro di squadra, perché le sue radici sono più profonde: è la fierezza di appartenere alla collettività! È questo senso di dignità che porta i componenti dell’organizzazione (cioè i dipendenti nelle aziende) a proclamare al mondo esterno dove lavorano.
La motivazione benedettina per la qualità collettiva è nell’affermazione delle capacità personali, rafforzata dalla disciplina della Regola; la chiave della qualità benedettina è rendere lo sforzo individuale parte integrante della comunità.
La motivazione benedettina per la qualità collettiva è nell’affermazione delle capacità personali, rafforzata dalla disciplina della Regola; la chiave della qualità benedettina è rendere lo sforzo individuale parte integrante della comunità.
Sergio Bini, Dalla Regola benedettina alla qualità totale, Seminario AICQ, Roma 19 dicembre 2011
Ridare centralità al problema del lavoro e alle sue conflittualità e offrire rappresentanza politica al lavoro nelle sue forme "moderne" come nelle sue forme più tradizionali dovrà essere il compito fondamentale di un autentico progetto riformista e solidale che non voglia rassegnarsi di fronte a una realtà che ha visto negli ultimi vent'anni un continuo impoverimento del lavoro e una progressiva spoliazione del lavoro dai diritti. Il lavoro è stato nuovamente ridotto a merce, nel senso che in questo processo è stata in parte smantellata quell'opera di demercificazione del lavoro compiuta in un secolo di storia europea.
E ora che l'Europa sta perdendo una parte dei suoi privilegi e scarica il costo di questo arretramento sul mondo del lavoro, a pagarne il prezzo non è l'Europa nel suo insieme, ma solo una parte di essa, come dimostrano gli impressionanti dati sulla crescita delle disuguaglianze sociali negli ultimi quindici anni. È come se, di fronte alla globalizzazione, ci fossero due Europe: da un lato quella della grande finanza, che si arricchisce del lavoro di chi non è europeo, globalizzando la sua capacità di estrarre ricchezza sfruttando il lavoro; dall'altro l'Europa del lavoro, che paga l'intero prezzo del mutamento dei rapporti di forza mondiali.
Per questa ragione è necessario ritornare a pensare, progettare e agire nelle linee di frattura che attraversano il campo del lavoro: il conflitto tra chi ha un posto di lavoro sicuro e chi invece vive di impieghi precari, tra autoctoni e immigrati, tra vecchi e giovani, tra uomini e donne, per ricostruire legami di solidarietà. La riduzione delle disuguaglianze non è, infatti, un dato naturale, ma passa attraverso progetti di riforme e di solidarietà intelligenti e innovativi.
Il fatto che il 15% della forza lavoro sia privo di diritti di cittadinanza significa che la gran parte delle donne che svolgono lavori domestici, fondamentali alla tenuta dell'organizzazione sociale, non hanno diritti politici; che moltissimi degli operai che svolgono mansioni negli strati più bassi del lavoro manuale, i braccianti agricoli, i lavoratori delle fonderie e delle concerie, non hanno diritto di voto; che il 10% del PIL non ha diritto di voto. Questo è un problema che non investe soltanto la condizione soggettiva dell'immigrato, ma riguarda la struttura stessa della nostra democrazia e rischia di indurre un'alterazione molto profonda. Il rapporto tra lavoro e politica, il nesso fra lavoro e democrazia ha in questo nodo un punto di crisi drammatico. È preoccupante non vedere un'azione all'altezza della enormità di questa questione. Riconoscere questi diritti è una grande occasione per la crescita morale, culturale e anche economica del Paese.
Se per una lunga fase il lavoro ha avuto la capacità di dare impulso alla politica sociale delle riforme e della solidarietà, oggi è la politica a dover restituire un ruolo e una dignità al lavoro, facendo crescere le ragioni comuni attraverso un'articolazione dei confronti sociali, un mutamento delle strutture contrattuali e un ampliamento della capacità di rappresentanza sindacale.
Le scelte da compiere e le iniziative da intraprendere sono molte e difficili, ma il problema che ci si trova di fronte è di una gravità tale che sarebbe da irresponsabili eluderlo.
È necessario rimettere le radici nel lavoro, per elaborare e attuare un concetto più ampio del lavoro: il lavoro come attività umana essenziale non solo a un progetto di realizzazione personale, ma soprattutto come forma e strumento di appartenenza comunitaria e di partecipazione alla vita civile del Paese. Favorire, cioè, quella soggettività della società, che si esplica nel molteplice intersecarsi dei rapporti tra persone, famiglie e gruppi e favorisce la creazione di strutture di partecipazione e di corresponsabilità. Perché, nonostante l'elevato progresso tecnico economico, si trovano molte forme di povertà, non solo economica, ma anche culturale, etica e religiosa.
Tutto questo dovrebbe inoltre essere filtrato attraverso una chiave di lettura generazionale, poiché oggi ci si trova di fronte a un drammatico problema di disoccupazione giovanile. In Italia circa due milioni di giovani non studiano né lavorano. Si tratta di un dramma sociale e umano di proporzioni gigantesche e rappresentare e tentare soluzioni a questo conflitto è un compito fondamentale di forze politiche e sociali che vogliano edificare il futuro con realismo, fiducia e speranza.
Così, non sarà la quantità della ricchezza di un Paese a generare la felicità, bensì il grado di eguaglianza, di coesione sociale e di civiltà. Da questo punto di vista gli italiani appartengono a una grande civiltà capace di produrre una qualità della vita straordinaria. È compito della politica, della buona politica, indicare le soluzioni migliori ai problemi sociali più gravi e urgenti. Ed il lavoro è certamente fra questi.