Chi non ci passa non lo può capire che cos’è la galera. In verità neppure chi ci passa dalle carceri lo capisce, anche se di sicuro non lo dimentica. Sandro Monaco passa il tempo viaggiando da un carcere all’altro, trova il modo di sgranare gli occhi e vorrebbe pure inghiottire pane, pacienza e tempo (così come raccomandano gli incalliti ospiti dell’Ucciardone, il carcere di Palermo) solo che non si capacita di come si possa essere ridotti a comparse di un carnaio viaggiante. E sempre buttando tempo, masticando pazienza e cercando pane. Chi ci passa dalle carceri se ne deve fare tante di tappe.
Un martedì di settembre, alle 21 e 30, viene comunicata al detenuto Monaco Giuseppe Sandro Maria la notizia del trasferimento da Ancona per Floridia, viene svegliato alle 5 e 45 dell’indomani, accompagnato alle pratiche di rito e poi fatto accomodare sul blindato dove viene a conoscenza di un fatto nuovo: si farà tutto il tragitto col cellulare e non in aereo. Prevista una sosta notturna al carcere di Vibo Valentia. Ecco la celletta del blindato: è una gabbia i cui lati sono larghi 50 e 75 centimetri, le pareti sono lastre d’acciaio. Se non si sta seduti dritti, al modo della marionetta, ci si fa molto male come quando ci s’inginocchia sui ceci. Naturalmente mancano le cinture di sicurezza e il poggiatesta. Viaggiare dentro questi blindati è una vera roulette russa. Basta un modesto tamponamento che, se va bene, ci si spacca la testa in tanti piccoli pezzi e si muore; se va benino ci si rompe l’osso del collo e si muore; se va male, invece, si ricompongono i pezzi e poi si campa. E si va avanti col viaggio. Il vettovagliamento in dotazione al detenuto consta di: numero uno di pezzo di pane, duro. Numero uno di bottiglia d’acqua. Numero quattro di würstel. Numero uno di mela e numero uno di prugna. Infine, il dolce: crostatina di albicocche.
Da Ancona a Taranto il viaggio procede nel trattenuto rollio del come viene viene ma, per fortuna, all’altezza di Taranto, alle 15 e 15, il blindato si rompe. Dopo un’ora e mezzo arriva il furgone sostitutivo e si riparte. È un blindato garantista, questo. Decisamente comodo. Alle 21 si arriva a Vibo. La cucina è già chiusa e si va a letto digiuni. Dopo un’educata insistenza viene consegnata una bottiglia d’acqua. Nelle celle d’isolamento riservate ai detenuti in transito non c’è cuscino, pazienza, Sandro — che non è un bandito, ma un figlio di mamma — prende la coperta, la piega e la infila sotto la federa. Il risveglio, con il latte, è rallegrato da due piccole susine. Sono state utili per sopperire all’assenza di un cestino da viaggio quando, alle 9 e 30, partendo, il blindato garantista ha fatto un lungo viaggio senza pane e con molte soste: carcere di Palmi, carcere di Reggio, carcere di Messina, carcere di Catania e, infine, alle 18, a Floridia. È, questa di Floridia, una tipica galera di come uno s’immagina debba essere la galera. I parenti in visita stazionano fuori dal portone, sotto il sole d’estate, anche fino a cinque ore. Vi entrano e si sottopongono a tutti i controlli. Firmano, consegnano i vestiti puliti, depositano i soldi, si fanno perquisire e devono farsi strappare pure i nastri a braccialetto: sono le zaredde di Santo Vito, segni votivi che si portano al polso. La cintura si può tenere, la zaredda di Santo Vito, no.
«Perché la cintura sì e il braccialetto no?», chiede Concetta, sorella di Sandro venuta in visita. «Questo lo sappiamo noi», risponde un tipo. Tutto sanno loro. Passa il tempo a tutti quelli che si passano il tempo girando carceri. E nessuno lo può capire. E dopo tutta la trafila e l’attesa, Concetta si sentì chiamare, «Monaco?», dopo si sentì dire: «È stato trasferito». Per restarsene lì, nel corridoio, con la zaredda strappata.
O la borsa o la vita. E il fatto crudo è questo: se ci si trova nella condizione di scegliere tra dare la borsa e salvare la vita, consegnando la borsa non si è vittima del bandito ma complice. Se un imprenditore siciliano minacciato dalla mafia, già parte civile in processi contro Cosa nostra, per far sopravvivere la propria attività — e con questa il lavoro di cento padri di famiglia — cede agli attentati e paga l’estorsione, se, insomma, per non morire consegna al bandito il proprio portafogli e tiene lontano quel cane con soldi della propria ditta, della propria azienda — secondo la legge — «partecipa alle attività economiche dell’associazione criminale, pur senza essere formalmente affiliato».
O il carcere o la galera. A Parma, Monaco si ritrova nella stessa cella di Giovanni Barbagallo, un soggetto legato ad Aiello: è un fatto assai singolare che si mettano vicini la vittima e un uomo accusato di mafia. Monaco, infine, viene destinato ad Ancona e tutte le intercettazioni raccolte in questo periodo vengono considerate inutili. Ma non vengono considerate utili ai fini della serena valutazione del caso (e il fatto è strano assai) le dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia che indicano in Sandro Monaco una “vittima”. Il fatto è strano assai, chissà cosa succederebbe se gli stessi collaboratori lo indicassero quale mafioso. Ma in verità siamo tutti in libertà provvisoria, anche le vite di chi gli è stato vicino sono state messe a nudo con pedinamenti e intercettazioni. E solo chi ci capita, in queste storie, lo può capire.
Il pomeriggio del 5 ottobre 2011, a seguito di un deciso intervento dell’avvocato Grazia Volo presso la Cassazione, dopo un anno meno un mese Sandro Monaco può finalmente essere tirato fuori dal carcere. Torna a Regalbuto e la sua casa si riempie di amici fino al giorno seguente come quando nei paesi qualcuno muore e le porte restano aperte per contenere gli abbracci e i saluti. Solo che lui è ritornato alla vita. Ciò che rimane uccisa sul selciato è l’azienda. E la solita Sicilia. Il futuro di cento padri di famiglia. Tutti incensurati. Sandro Monaco torna a casa ma non può tornare in azienda. Nella borsa resta la vita.
Marco Ardiri, “Giustizialismo” e giustizia
Italiani, popolo di giustizialisti? Certamente il materiale dal quale attingere per avere delle risposte al nostro quesito è ampio e variegato. Occorrerebbe, preliminarmente alle nostre riflessioni, comprendere la portata significativa del termine “garantismo”. Diremo perciò, in una accezione generica, che il garantismo tutela e salvaguardia le garanzie giuridiche e politiche volte a riconoscere e tutelare i diritti e le libertà fondamentali degli individui da qualsiasi abuso o arbitrio spesso proveniente dai pubblici poteri. Si parla poi, più specificamente del garantismo giudiziario, secondo il quale la giurisdizione, nell’assicurare certezza e celerità della giustizia, è tenuta a fornire alle parti una serie di garanzie tali da impedire ogni abuso da parte di un potere pubblico.
La base culturale di fondo al tema del garantismo può trovare fondamento nell’assunto di Voltaire, secondo il quale «è meglio correre il rischio di salvare un colpevole piuttosto che condannare un innocente». Nell’età moderna il concetto de quo rappresenta un elemento di democraticità, presente nella maggior parte degli stati. L’importanza del garantismo è facilmente riscontrabile nella previsione di alcune tipiche garanzie giudiziarie, quali il divieto di tortura giudiziaria, il doppio grado di giudizio, la presunzione di innocenza fino a prova contraria, l’irretroattività delle norme penali, la pubblicità delle procedure, l’unità di giurisdizione, la netta distinzione tra la giurisdizione civile e penale ecc..
A queste considerazioni di teoria generale sul garantismo, non possiamo non tenere presenti tutti quegli elementi degenerativi che alimentano il c.d. giustizialismo o giustizia popolare. Una forma veloce e non ragionata di giustizia, frutto troppo spesso di malcontento sociale, strumentalizzazione politica, alterazioni informative impresse dalle potenti lobby economiche o centri d’interesse. Diventa, allora, molto pericoloso questo gioco di dover trovare e puntare il dito contro il presunto colpevole di turno.
Un modus operandi che porta con sé il rischio di infliggere, anticipando troppo prematuramente i tempi necessari per un giusto giudizio, una serie di condanne morali, sociali e appunto giudiziarie a furor di popolo. Nel mezzo tra i tempi della giustizia e del suo sfociare in una sentenza, si trovano a sguazzare una moltitudine di trasmissioni, informazioni flash e show serali che troppo spesso influenzano opinioni, creano talvolta ingiustificati allarmismi sociali, pressano sistematicamente la vita privata di coloro che malauguratamente ruotano intorno a una vicenda di cronaca.
Un bombardamento continuo di notizie utilizzate per incrementare gli ascolti, organizzare i palinsesti televisivi e creare profitto. Un tritacarne mediatico, dunque, che non tiene conto di tutti quei diritti inviolabili che spettano a ogni individuo (alla privacy, alla difesa, all’immagine ecc.). Una evidente distorsione informativa che prevarica i suddetti diritti sanciti nella Costituzione ed elaborati dalla giurisprudenza più attenta. E allora, se oggi l’informazione ha acquisito una rilevanza fondamentale nei sistemi democratici dei paesi, essa tuttavia non dovrebbe travalicare quegli inviolabili principi di dignità, di rispetto e di trattamento, perché espressioni altrettanto manifeste di civiltà.
Ma questo giornalismo sommario rischia di perdere parte della professionalità, allorquando, utilizzando verità superficiali, non tiene conto che dietro ogni singola notizia di cronaca e anche nelle circostanze di reati efferati, si trovano uomini, vite vissute, famiglie, dignità, lavori sudati, situazioni o realtà difficili, ai quali riconoscere una presunzione di innocenza fino al giudizio dei giudici.