Bobbio sostiene che questa guerra era necessaria ma che essa non si può legittimare nei vecchi termini di “guerra giusta”. Questo concetto è stato abbandonato, sostiene il suo collega italiano, durante le guerre dell'equilibrio europeo prima della Prima guerra mondiale. Ma forse lei non sarà d'accordo.
E non lo sono infatti. Quelli che Bobbio chiama i «vecchi termini di guerra giusta» non sono stati abbandonati. Tutt'altro. Ho partecipato alle discussioni sulla guerra del Vietnam negli Stati Uniti senza sapere nulla, a quell'epoca, della teoria della guerra giusta. Ma ho imparato cose sulla teoria da questa pratica politica: gli argomenti che usavamo contro la guerra e gli argomenti impiegati dai suoi sostenitori provenivano tutti, per dir così, dall'arsenale della teoria della guerra giusta. Eravamo teorici senza coscienza teorica. E quando ho scritto “guerre giuste e guerre ingiuste” io ho semplicemente sviluppato in maniera più formale quello che avevo già elaborato in una maniera pratica. Oggi la situazione è la stessa: tutte le risorse che occorrono per parlare dell'intervento militare, tutti i concetti e gli argomenti che appaiono ora sui giornali quotidiani derivano dai vecchi libri sulla guerra giusta.
Se ho capito bene la sua opinione, lei sostiene che la guerra deve essere portata avanti fino in fondo dalla Nato, la quale deve impiegare tutti i mezzi militari necessari allo scopo, compreso l'intervento sul terreno. Bombardare la Serbia senza mandarci i soldati rischia di aiutare Milosevic nella sua strategia di pulizia etnica. È così?
Non sono né un militare né uno stratega militare. E non so se le forze di terra sono un mezzo necessario per vincere nel Kosovo. Quello di cui sono convinto è che gli stati dotati di eserciti che non possano essere messi a rischio non sono moralmente o militarmente qualificati per intervenire nel nome dei diritti umani. Se c'è gente che viene assassinata, terrorizzata, portata via dalle sue case, una risposta militare sul terreno deve essere, almeno, una opzione disponibile. Non si può usare la forza nel Paese di qualcun altro se non si è preparati ad affrontare tutte le conseguenze della scelta di farlo. E non si può dire che si affronteranno le conseguenze di quella scelta soltanto fino a quando i tuoi soldati non saranno messi in gioco.
Lei dice che noi ̶ noi come mondo civile, occidente, Europa ̶ non dovremmo permettere senza reagire che accadano i massacri cambogiani, i crimini di Amin e altre simili cose. Ogni volta che i diritti umani sono violati da qualche parte è giustificato un intervento militare esterno?
Fermare i crimini contro l'umanità è qualcosa che i filosofi morali chiamano un “dovere imperfetto”. Questo significa che si tratta di un dovere che non si può attribuire a nessun agente particolare. Qualcuno dovrebbe agire, ma nessun singolo agente o gruppo di agenti, nessuno Stato e nessuna alleanza regionale di Stati sono obbligati a farlo. Se l'Onu può agire, vale a dire se tutti gli Stati con il potere di veto nel Consiglio di sicurezza sono d'accordo, questa è probabilmente la migliore risposta. O forse la migliore risposta è se uno Stato vicino, o un gruppo di Stati vicini, interviene. C'è una serie di considerazioni prudenziali che sarebbero qui rilevanti. Ma, sì, rispondo di sì, se i crimini sono reali, se essi includono il genocidio, o la messa in schiavitù su larga scala, o la pulizia etnica, e se la diplomazia non riesce a fermare quello che si deve fermare, allora l'intervento militare è sempre giustificato.
Bobbio ha avanzato anche una tesi estrema, una sorta di provocazione filosofica: gli Stati Uniti hanno una sorta di hegeliano “diritto assoluto” senza i limiti rappresentati da altri poteri perché essi sono il potere egemone alla fine di questo secolo. Sono stati non solo i vincitori di tre guerre mondiali, ma i vincitori dalla parte dei valori della libertà e della democrazia. Il loro potere assoluto è dunque, per così dire, storicamente meritato. Il che costringe a essere filoamericani, senza alternative almeno fino a quando l'Europa non avrà una sua politica estera e una sua forza militare autonoma.
Come americano, eviterei argomenti di questo genere. Ma li avverso anche come filosofo che respinge ogni versione del “diritto assoluto” hegeliano. Una “pax americana” non sarebbe la cosa peggiore che possa capitare al mondo, ma non è il nome che do alle mie aspirazioni. La mia speranza a breve termine punta verso un equilibrio di poteri di stile, diciamo, classico, possibilmente senza guerre fredde o rivalità nucleari. E la prospettiva più immediata è che il potere degli Stati Uniti sia bilanciato dall'Europa. Per questo avrei voluto vedere a suo tempo un intervento europeo in Bosnia, senza l'iniziativa o la leadership americana. Ma sono d'accordo con Bobbio: in assenza di un'Europa indipendente, noi della sinistra dobbiamo appoggiare gli interventi congiunti Stati Uniti-Europa dovunque siano necessari ed efficaci. In generale, certo, è meglio se i valori umani sono difesi da più di un solo agente.
Luigi Manconi, La guerra “giusta” di Libia
Ne valeva la pena? Mentre il regime di Muhammar Gheddafi si avvia al crollo finale, è doveroso porsi questa domanda, tenendo ben presente il dato atroce delle circa 50mila vittime rimaste sul terreno. Le cose sono tanto complicate che, prioritariamente, ci si deve domandare se sia lecito utilizzare un indicatore di tipo “economico” ̶ l’analisi del rapporto tra costi e benefici ̶ per valutare l’opportunità e, insieme, la moralità dell’azione militare. Chi, come me e come questo giornale ne è stato convinto, non può accontentarsi né del fatto che, a motivare l’intervento fosse la ferocia del Regime di Gheddafi né che, a volerlo, sia stata una risoluzione dell’Onu né che l’azione armata sia andata a buon fine. Tutti ottimi argomenti, ma più e prima pesano altre ragioni sulle quali è giusto sollecitare la riflessione di quanti, i pacifisti in primo luogo, non avrebbero voluto questa nuova “guerra di Libia”. Chi, come me, non è ostile al pacifismo (al contrario), continua a considerarlo come un’opzione fondamentale proprio in ragione della sua forza profetica: un segno, un messaggio, un annuncio che viene prima e va oltre la politica e al quale tuttavia la politica non può sottrarsi ma nemmeno meccanicamente uniformarsi, in quanto opera in un campo differente e incomparabile. Il pacifismo allude a un assoluto, che attiene a una sfera diversa da quella della politica. Quest’ultima lavora, invece, nel tempo storico, cerca la mediazione, scende a patti con l’avversario: mentre il pacifismo è una pietra angolare che misura la distanza tra politica e morale e indica come essa possa essere ridotta, nella consapevolezza che la prima non possa né identificarsi con la seconda né sottrarsi al giudizio di essa. Ma se il pacifismo è, appunto, un assoluto, in cosa consiste la sua natura incondizionata, se non nel porre l’incolumità della vita umana come valore primo e fondamentale? Come può, pertanto, il pacifismo non intervenire laddove una qualunque vita umana subisca un attentato? Come può impedirglielo il solo fatto che il mezzo cui si è costretti a ricorrere non è incruento? Ovvero: può esistere un pacifismo non interventista? Certo i mezzi di quell’intervento sono tutti da discutere, ma è prioritario affermare che è proprio del pacifismo entrare in campo, interferire, agire. E se ̶ a tal fine ̶ un mezzo non risulti efficace, si deve ricorrere a un altro. Insomma un pacifismo che non abbia esclusivamente una vocazione testimoniale, deve considerare, con la dovuta prudenza, il problema dell’uso della forza a tutela delle vittime. E qui interviene un altro fattore. C’è un momento, nelle dinamiche storiche, in cui la questione del tempo impone scelte ineludibili. È esattamente quanto è accaduto in occasione dell’intervento militare in Libia. I pacifisti hanno tutte le ragioni del mondo, e sono anche le mie ragioni, a dire che si doveva intervenire prima, molto prima. Quando i mezzi nonviolenti, l’attività diplomatica, la pressione internazionale, avrebbero potuto condizionare il regime di Gheddafi; quando si sarebbe potuto evitare di firmare un patto di amicizia con la Libia così indecentemente oneroso per l’Italia e per i diritti umani; quando un’attività di comunicazione e informazione avrebbe potuto contrastare la capacità del regime di manipolare l’opinione pubblica interna e internazionale.
Tutto ciò è assolutamente vero e non è solo senno del poi, perché potrebbe costituire un prontuario di ciò che è utile fare oggi nei confronti di altri regimi dispotici. Ma quel giorno di quel mese di quell’anno (ovvero appena poche settimane fa), quando l’esercito di Gheddafi bombardava gli oppositori, cos’altro era possibile fare, se non opporre forza a forza? La priorità assoluta della tutela della vita umana come fondamento dello stesso pacifismo e l’ineludibile fattore rappresentato dal tempo (cosa faccio oggi, quando la guerra di Gheddafi è già in atto?), costituivano buoni argomenti a favore dell’intervento. E questo perché l’analisi dei costi/benefici, pur così dolorosa, impone di considerare l’abbattimento di un regime dispotico come una posta in gioco per la quale mettere in conto sia la perdita di vite umane che un futuro pieno di incognite. Personalmente ne traggo una conclusione: quando non è l’espressione di una profonda ispirazione religiosa, il pacifismo è in primo luogo un metro di misura. Un meglio al quale comparare le scelte quotidiane, pragmatiche e talvolta fatalmente “sporche”. Una meta alla quale tendere, modificando azioni e comportamenti perché risultino il più coerenti possibile (o il meno incoerenti possibile) rispetto a un modello ottimale. In altre parole, vale anche in questo caso un principio che dovrebbe orientare costantemente l’agire politico. Quest’ultimo non vive di assoluti, ma di atti concreti in situazioni concrete, dove l’opzione per il male minore è la più alta scelta morale consentita.
Della Chiesa dunque è proprio non il pacifismo assoluto, che assolutizza la vita, ma il pacifismo relativo, che condiziona la pace alla giustizia e la guerra pure. Ma il più gagliardo fautore del pacifismo, Erasmo da Rotterdam, nella Querela pacis e nella parafrasi del Pater noster, insegna al contrario che «non c’è pace ingiusta che non sia preferibile alla più giusta delle guerre». E diffuse correnti di opinione hanno sposato l’irenismo, cioè il pacifismo, assoluto e possono invocare suffragi autorevoli. Il card. Poma, arcivescovo di Bologna, in “Osservatore Romano” del 4 maggio 1974, scriveva: «Nulla più che la guerra è contrastante col Cristianesimo. In essa, che è la sintesi di tutti i peccati, la superbia s’incontra con lo scatenarsi degli istinti inferiori». Ma asserzioni così mancanti di distinzioni e di senso storico sono contrarie a secoli di Cristianesimo, alla riconosciuta santità di guerrieri, come Giovanna d’Arco, e alla celebrazione che della guerra giusta fece Paolo VI in un documento speciale per il quinto centenario della morte dello Scanderbeg. Lo stesso Paolo VI, ricordando in un discorso la visita di Pio XII al popolo di Roma dopo i bombardamenti del 1943 e il grido di un giovane: «Papa, Papa, meglio la schiavitù che la guerra! Liberaci dalla guerra!», qualificò un tal grido di “folle”. Vi sono certo dichiarazioni di Paolo VI che proclamano «l’assurdità della moderna guerra» e «la suprema irrazionalità della guerra» (Osservatore Romano, 21 dicembre 1977). E vi è infine la dichiarazione di Giovanni Paolo II a Coventry nel maggio 1982: «Oggi la portata e l’orrore della guerra moderna, sia essa nucleare o convenzionale, rendono questa guerra totalmente inaccettabile per comporre dispute e vertenze tra le nazioni». Tuttavia, se si osservano i termini delle due dichiarazioni papali, si riconoscerà che esse non escono dai principii tradizionali della teologia della guerra e ne costituiscono uno di quegli sviluppi della coscienza morale che dipendono dalla variazione delle circostanze. La liceità della guerra è infatti legata a condizioni: che sia dichiarata da chi ha l’autorità; che si proponga di riparare un diritto violato; che vi sia fondata speranza di conseguire tale riparazione; che sia condotta con moderazione. Queste condizioni sono ricevute anche nell’articolo 137 del Codice sociale elaborato dall’Unione internazionale di studi sociali fondata dal card. Mercier e riflettono un’ininterrotta tradizione delle scuole cattoliche.
In Gaudium et spes, 79-80, il Vaticano II ha confermato la liceità della guerra difensiva, ha condannato la guerra offensiva intrapresa come mezzo di risolvere le contese tra nazioni, e infine ha proscritto senza eccezioni la guerra totale, innanzitutto quella atomica. Quanto al servizio militare che i cittadini prestano per la sicurezza e la libertà della patria, il Concilio non solo lo ammette, ma dichiara altresì che «esercitando un tal dovere essi contribuiscono realmente a stabilire la pace». È per l’inadempienza di una delle condizioni predette che il diritto di guerra deve essere riesaminato con mentalità del tutto nuova e che il Concilio sentenzia: «ogni azione bellica tendente alla distruzione indiscriminata di intere città o vaste regioni con tutta la loro popolazione è un crimine contro Dio e contro l’uomo, da condannare con forza e senza esitazione». La guerra totale è vietata anche nel caso di legittima difesa che, per mancanza di moderazione, diviene anch’essa illegittima. Il Concilio, il quale insegna la guerra di difesa contro l’aggressione essere lecita, «finché non sia costituita un’autorità internazionale competente e munita di congrue forze coattive», insegna parimenti che essa diviene illecita quando miri allo sterminio totale del nemico. Sono dunque condannate la guerra intrapresa offensivamente per risolvere un litigio e la guerra, offensiva o difensiva che sia, condotta senza il moderamen inculpatae tutelae. Non è invece condannata la guerra difensiva condotta con quel moderamen. È per la circostanza nuova della totalità della guerra che la valutazione morale della guerra (come d’altronde di tutte le cose secondo che sono diversamente circostanziate) rimane mutata.
Il Vaticano II dice espressamente: «Finché non sia costituita un’autorità internazionale competente munita di congrue forze per costringere i trasgressori, non si potrà negare ai governi il diritto di legittima difesa». Se nei singoli Stati l’autorità sociale perime il diritto individuale di farsi giustizia, anche nella costituenda società internazionale, che è un consorzio non di enti sovrani, ma di soci, tutti soggetti, l’autorità perime il diritto dei singoli Stati di farsi giustizia da sé. Dallo stato selvaggio in cui giace ancora la comunità dei popoli, il genere umano deve organizzarsi in una perfetta societas populorum quale auspicò Leone XIII e delineò in concreto Benedetto XV giusta la tradizione della teologia cattolica dai Medievali al Suarez, dal Campanella al Taparelli d’Azeglio. Non sarà allora eliminata la guerra (si badi bene), ma si saprà che chi guerreggia per farsi giustizia da sé, quasi fosse sovrano, è ingiusto, e la guerra condotta contro di lui dall’unica autorità avrà il carattere della giustizia. L’uso della forza da parte dell’autorità etnarchica allo scopo di reprimere il violatore della giustizia è il principio dell’ordine e della pace internazionali. Le società nazionali si disfanno nell’anarchia quando l’autorità perde l’uso della forza: la società etnarchica non meno.