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Pace: un concetto antico come l'umanità
Pace individuale e pace sociale
La pace: un diritto di tutti
Costruire la pace giorno per giorno
La globalizzazione dei conflitti

La pace

Pace: un concetto antico come l'umanità

Pace individuale e pace sociale

La pace: un diritto di tutti

Costruire la pace giorno per giorno

La globalizzazione dei conflitti

Che cos'è la pace?

Che cos'è la pace?

Il concetto di pace ha origini antichissime ed è divenuto, con il tempo, particolarmente ricco di significati. Esso identifica uno stato di quiete o tranquillità dell'animo umano percepito come assenza di turbamenti e agitazione, ma al tempo stesso ha acquistato una forte valenza in ambito politico-sociale, in quanto descrive l'assenza di conflitti violenti all'interno delle società o fra gli Stati nazionali. 
Valore ampiamente condiviso, ispira il movimento non violento (il cui più illustre rappresentante è stato Gandhi) e le numerose espressioni organizzate del pacifismo, attive soprattutto dopo la presa di coscienza originata dagli orrori delle due guerre mondiali.

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La parola pace ha origini antichissime, come testimonia la sua etimologia. Infatti Il termine deriva dal latino pax, il quale a sua volta si fa derivare dalla radice indoeuropea pak-pag- (fissare, pattuire, legare, unire, saldare).
Il concetto di pace si sviluppa ben presto nel mondo greco e poi in quello latino, nonostante si tratti di civiltà che facevano ampio ricorso alla guerra.
Il pensiero che per primo attribuisce un ruolo fondamentale alla pace è quello cristiano, che considera la pace il dono offerto agli uomini dal Signore risorto e il frutto della vita nuova inaugurata dalla sua resurrezione. La pace, pertanto, si identifica come “novità” immessa nella storia dalla Pasqua di Cristo. Essa nasce da un profondo rinnovamento del cuore dell'uomo. Devono passare però molti secoli prima che il concetto di pace ritorni al centro del dibattito filosofico: ciò avviene con l'affermazione del pensiero illuminista; così ad esempio Kant propone una struttura mondiale che dovrebbe favorire la pace, organizzata sulla base di tre articoli, che riguardano rispettivamente il diritto pubblico interno, il diritto internazionale e il diritto chiamato da Kant cosmopolitico. Quest'ultimo definisce i diritti nei rapporti degli Stati fra loro e con i singoli individui all'interno di uno Stato sovranazionale detto civitas gentium.

A partire dal XIX secolo, con la diffusione delle idee liberali e democratiche, si sviluppa il cosiddetto pacifismo, un movimento che in realtà raccoglie figure e correnti  di diversa ispirazione. L'orrore delle due guerre mondiali, il pericolo di conflitto nucleare, la diffusione dei conflitti locali sono tutti elementi che hanno rafforzato l'espressione delle idee pacifiste e che hanno ancora una volta visto la Chiesa Cattolica in prima fila a fianco dei più deboli.

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PACE:

un concetto all'origine del pensiero umano

AMBITI COINVOLTI

Pace individuale e pace sociale

La pace e la religione

Non violenza e pacifismo

La pace: un diritto universale

LA POSTA IN GIOCO

La pace a rischio: le guerre globali

Costruire la pace

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La pace

Perché è un problema etico

Il concetto di pace è uno dei più antichi e profondi in senso antropologico e filosofico. Esso identifica uno stato di quiete o tranquillità dell'animo umano percepito come assenza di turbamenti e agitazione.

Il concetto di pace ha ben presto assunto una forte valenza politico-sociale che deriva dalla natura sociale dell'essere umano [vedi Relazioni interpersonali]: in questo senso, la pace equivale all'assenza di conflitti violenti all'interno delle società o fra gli Stati nazionali.

La pace è un valore centrale anche per il pensiero religioso, in particolare nel messaggio cristiano.

La pace ispira il movimento non violento (il cui più illustre rappresentante è stato Gandhi) e le numerose espressioni organizzate del pacifismo, attive soprattutto dopo la presa di coscienza determinata dagli orrori delle due guerre mondiali e capaci di agire insieme, a prescindere dalle differenze originarie, per il bene e l'interesse comune. 

La centralità del valore della pace è fortemente ribadita, a livello mondiale, dalle istituzioni sovranazionali (in primo luogo le Nazioni Unite) che operano per la risoluzione pacifica dei conflitti e hanno riconosciuto ufficialmente il "diritto alla pace", alla stregua degli diritti umani universali.

Oggi purtroppo però il numero dei conflitti armati nel mondo va aumentando e rende la questione della pace sempre più attuale e stringente. Spesso si tratta di guerre a "bassa intensità", che a fatica raggiungono le pagine dei giornali, ma che hanno effetti sempre più devastanti specie per le popolazioni civili: oltre a causare un numero sempre più elevato di vittime innocenti, i conflitti armati rappresentano ad esempio uno dei principali fattori che spinge a migrare [vedi Migrazioni].

Porre in primo piano le istanze di pace oggi perciò significa prima di tutto ridare centralità alla dignità individuale e sociale.

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Hotel Rwanda vent'anni dopo

Il giornalista Ewanfoh O. Peter ha intervistato nel 2012 Paul Rusesabagina, il protagonista del film Hotel Rwanda del 2004, che narra il conflitto etnico fra Hutu e Tutsi, un evento che nel 1994 ha causato probabilmente più di 1.000.000 di vittime.
18 anni dopo il genocidio e al termine di un processo di riconciliazione calato dall’alto, nulla è cambiato. Resta però intatto il valore dell'esempio di Paul, vero “costruttore di pace”.

Grazie signor Paul per aver accettato di parlare con noi oggi. Potrebbe iniziare col dirci di più su di lei?
Sono Paul Rusesabagina. Ogni tanto quando dico il significato del mio nome, qualcuno si mette a ridere. Rusesa significa “disperdere” e bagina significa “nemico”. Quindi Ru è “colui che allontana i nemici”. Questo è il significato del mio nome. Chi sono? Sono il protagonista reale di cui si parla nel film Hotel Rwanda che molti hanno visto sugli schermi di tutto il mondo. Io sono il direttore di un hotel in cui ho nascosto 1268 persone che erano venute a cercare rifugio. Nessuno di loro è stato ucciso, nessuno è stato sequestrato e neanche picchiato. È questo il motivo per cui questo film parla di me.

Se non mi sbaglio, lei è nato da un padre Hutu e una madre Tutsi. Devono esserle molto chiare le diverse realtà di questi due popoli. Quali erano i rapporti di questi due gruppi prima del 1994?
Beh, è ironico avere due genitori che appartengono a due gruppi distinti. Non ero cosciente di queste differenze etniche fino al febbraio 1973 quando ho visto molti dei miei amici che venivano cacciati da scuola a causa di ciò che erano.

Com’era la situazione a quel tempo?
La situazione in Rwanda è sempre stata tesa e molto nervosa. C’erano sempre persone sospettose le une delle altre. Tra il 1959 e il 1963 250 mila Tutsi avevano lasciato il Paese per andare in esilio. Così quelli in esilio attaccavano il Paese, facendovi spesso ritorno. C’erano sempre tensioni tra i due [gruppi]. Tuttavia c’era stato un periodo di una sorta di silenzio tra il 1980 e il 1988 all’incirca. Poi arrivò il 1990 e incominciò la guerra. Il Rwanda visse il genocidio mentre si stava verificando una guerra civile che iniziò in quella data e la guerra civile causò un esodo. Dietro l’esodo delle popolazioni si nascondevano i ribelli. E così facendo i ribelli uccidevano i civili. La gente scappava un po’ dappertutto. C’era molta tensione fino al 1993, inizio 1994 quando potevamo vedere circa 2 milioni di persone intorno alla capitale, Kigali, che scappavano dalla città per poi farci ritorno per chiedere l’elemosina, andare a dormire all’aria aperta sotto la pioggia, sotto il sole, nella polvere, senza cibo, senza scuole per i bambini, la situazione era proprio brutta.

Quando ha capito che la guerra avrebbe assunto le dimensioni del genocidio?
Il giorno in cui i due presidenti del Rwanda e del Burundi, con i loro ministri, furono uccisi, il 6 aprile, la situazione cambiò radicalmente. Si capiva che qualcuno voleva il potere e lo voleva tutto intero e fu a quel punto che iniziarono i massacri. A quel punto capii che il governo non esisteva più; fu allora che compresi che era cambiato tutto e decisi di prendere la mia parte di responsabilità. Le persone che vennero a casa nostra, le dovevo portare all’hotel perché sapevo che erano in pericolo.

Considerando i rischi, com’è riuscito a prendere in considerazione l’idea di nascondere più di 1000 persone nel suo hotel?
Quando si vivono esperienze simili non si è mai preparati. Non ci si prepara mai per simili vicissitudini. Si fa solo ciò in cui si crede, ciò che la propria coscienza dice di essere la cosa giusta. Ascolti te stesso e questo è il modo migliore per affrontare la situazione. Nessuno è venuto al mondo per essere ucciso da un proprio simile.

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Copertina

La definizione

Il problema

Il fatto

La parola “pace”:

  • ha origini antichissime, poiché ha radice etimologica indoeuropea

  • viene usata per la prima volta dopo la seconda guerra mondiale

  • non è traducibile in latino

  • non esiste nelle lingue parlate in Asia

1

I conflitti armati oggi sono:

  • un fenomeno che interessa esclusivamente l'Africa

  • uno dei fattori che più contribuisce alle migrazioni

  • un fenomeno rarissimo, che non riguarda le popolazioni civili

  • molto meno sanguinosi che in passato, grazie alla precisione delle armi

2

Il pacifismo è:

  • un movimento creato da Gandhi

  • una corrente nata in California nel 1968

  • l'insieme degli individui e dei gruppi che si oppongono a tutti i conflitti armati 

  • una corrente filosofica che risale all'antica Grecia

3

La Chiesa Cattolica:

  • ammette la legittima difesa collettiva, in determinate circostanze

  • ammette la legittima difesa individuale ma non quella collettiva

  • giustifica soltanto le guerre religiose

  • non interviene mai pubblicamente in relazione ai conflitti fra Stati nazionali

1

Domande per riflettere

  • L'Italia è impegnata in numerose missioni di pace all'estero.
    Con l'aiuto dell'insegnante esaminate uno di questi casi, ricostruendo in una scheda sintetica tutti gli elementi più importanti.

  • Che cosa significa per voi “pacifismo”?

  • Discutete l'argomento in riferimento alla vita di tutti i giorni, alle relazioni con le altre persone, ai piccoli conflitti quotidiani.

  • La letteratura e il cinema sono ricchi di spunti sul tema della pace.
    Insieme all'insegnante, discutete alcuni esempi a voi familiari.

  • Conoscete qualcuno che è fuggito da un Paese tormentato dalla guerra? Provate a scrivere la scaletta di una breve intervista per conoscere meglio la sua storia.

Dilemmi per discutere

Se non c'è pace sociale:

“Non è possibile nemmeno la pace individuale”

“Per vivere in pace basta isolarsi dalle vicende che avvengono intorno a noi”

La guerra:

“Va sempre condannata”

“Può essere giustificata in casi eccezionali”

Il pacifismo:

“Dovrebbe essere una pratica quotidiana, anche nei rapporti personali”

“Va perseguito soprattutto manifestando pubblicamente quando scoppiano i conflitti”

Fare il punto

Riflettere

Discutere

La pace | Per approfondire

Che cosa dice la Legge

Il tema della pace è oggetto di numerosi provvedimenti internazionali, accordi e convenzioni che regolano la risoluzione delle controversie fra Stati. In questo contesto, il ruolo delle istituzioni internazionali (Nazioni Unite) è significativo e ha consentito ad esempio di definire i trattati contro la proliferazione delle armi nucleari, che hanno consentito la riduzione degli arsenali nucleari e sottoposto gli Stati a regole internazionali più severe. Il diritto alla pace è riconosciuto a livello mondiale dalle Nazioni Unite a partire dal 1984.

Assemblea generale delle Nazioni Unite, Dichiarazione sul Diritto dei Popoli alla Pace

Per garantire l'esercizio del diritto dei popoli alla pace, è indispensabile che la politica degli Stati tenda alla eliminazione delle minacce di guerra, soprattutto di quella nucleare, all'abbandono del ricorso alla forza nelle relazioni internazionali e alla composizione pacifica delle controversie internazionali sulla base dello Statuto delle Nazioni Unite.

La pace | Per approfondire

Il parere della Chiesa Cattolica

La Chiesa Cattolica ha da sempre riconosciuto la centralità del concetto di pace come dono di Dio. In epoca moderna la Chiesa ha inoltre assunto un ruolo di netta, crescente opposizione alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti, pur ammettendo la liceità della difesa collettiva.

Catechismo della Chiesa Cattolica

Il bene comune implica infine la pace, cioè la stabilità e la sicurezza di un ordine giusto. Suppone quindi che l'autorità garantisca, con mezzi onesti, la sicurezza della società e quella dei suoi membri. Esso fonda il diritto alla legittima difesa personale e collettiva.


Giovanni XXIII, Pacem in terris

Ogni credente, in questo nostro mondo, deve essere una scintilla di luce, un centro di amore, un fermento vivificatore nella massa: e tanto più lo sarà, quanto più, nella intimità di se stesso, vive in comunione con Dio.
Infatti non si dà pace fra gli uomini se non vi è pace in ciascuno di essi, se cioè ognuno non instaura in se stesso l’ordine voluto da Dio. «Vuole l’anima tua - si domanda sant’Agostino - vincere le tue passioni? Sia sottomessa a chi è in alto e vincerà ciò che è in basso. E sarà in te la pace: vera, sicura, ordinatissima. Qual è l’ordine di questa pace? Dio comanda all’anima, l’anima al corpo; niente di più ordinato». […]
Ma la pace rimane solo suono di parole, se non è fondata su quell’ordine […] fondato sulla verità, costruito secondo giustizia, vivificato e integrato dalla carità e posto in atto nella libertà.
È questa un’impresa tanto nobile ed alta che le forze umane, anche se animate da ogni lodevole buona volontà, non possono da sole portare ad effetto. Affinché l’umana società sia uno specchio il più fedele possibile del regno di Dio, è necessario l’aiuto dall’alto.


Francesco, Omelia del 25 febbraio 2014

Abitualmente, davanti a un conflitto, ci troviamo in una situazione curiosa: andare avanti per risolverlo litigando, con il linguaggio di guerra. Non viene prima il linguaggio di pace! E le conseguenze? Pensate ai bambini affamati nei campi dei rifugiati, pensate che questo è il frutto della guerra! E se volete, pensate ai grandi salotti, alle feste che fanno quelli che sono i padroni delle industrie delle armi, che fabbricano le armi, le armi che finiscono lì: il bambino ammalato, affamato, un campo di rifugiati e le grandi feste, la buona vita che fanno quelli che fabbricano le armi.

La pace | Per approfondire

Il parere delle diverse religioni


Tariq Ramadan, La pace e la regola

Secondo un'interpretazione moderata del Corano, è chiaramente detto che la guerra di aggressione non è permessa nell'Islam. Un musulmano può quindi intraprendere solo una guerra difensiva, mai offensiva. In obbedienza a questo precetto, la pace è la regola mentre la guerra è l'eccezione. Nemmeno la necessità di rispondere ad un atto di aggressione è sufficiente ad un musulmano per intraprendere una guerra. Egli dovrà considerare l'intera situazione e, se non è sicuro del risultato di una possibile guerra, dovrà adottare una condotta volta ad evitare la violenza. Quindi anche in caso di difesa, se il risultato è dubbio un musulmano dovrà evitare la guerra.

D'altra parte, il concetto di jihad (lotta) è uno degli insegnamenti più importanti dell'Islam. Ma la parola jihad non è sinonimo di guerra, poiché nel Corano è utilizzata un'altra parola, qital, per indicare la lotta violenta. In realtà jihad significa lotta pacifica, finalizzata alla pratica religiosa. È scritto nel Corano: «Fai una grande jihad con l'aiuto del Corano», ma il vero significato della frase è «lotta con tutta la forza della tua fede e la potenza dei precetti del Corano». Infatti, jihad è solo un altro modo di indicare un attivismo pacifico, il quale è la sola arma attraverso cui l'Islam vuole raggiungere tutti i suoi scopi e obiettivi. Secondo l'esplicito insegnamento del Corano, la vocazione verso Allah è la vera ed eterna missione dell'Islam, laddove la guerra è un qualcosa di temporaneo ed eccezionale.


Bahá'í, Per la pace universale

Il principio fondamentale della Fede Bahá'í è che la verità religiosa non sia assoluta, ma relativa: c'è un unico Dio inconoscibile, che progressivamente si rivela all'umanità attraverso il suo verbo che si manifesta nei vari messaggeri divini. Tutte le religioni sono viste come stadi della rivelazione della volontà e degli scopi di Dio, i loro insegnamenti sono sfaccettature di un'unica verità.

Lo scopo ultimo della religione Bahá'í è l'unità del genere umano e la pace universale. Dice Bahá'u'lláh: «La Terra è un solo Paese e l'umanità i suoi cittadini». La fede tende all'instaurazione di una comunità mondiale in cui tutte le religioni, razze, credenze e classi siano strettamente e definitivamente unite. Secondo Bahá'u'lláh una società globale per poter fiorire deve basarsi su certi principi fondamentali, che includono: la libera indipendente ricerca della verità, l'eliminazione di tutte le forme di pregiudizio; piena parità di diritti tra uomo e donna; riconoscimento della unicità essenziale delle grandi religioni mondiali; unicità di Dio, eliminazione degli estremi di povertà e ricchezza; istruzione universale; armonia tra religione e scienza; equilibrio sostenibile tra natura e tecnologia; una lingua ausiliaria universale e lo stabilirsi di un sistema federativo mondiale, basato sulla sicurezza collettiva.

Seguendo il suo insegnamento, Shoghi Effendi (1897-1957) definì la sua epoca come l'Età formativa, coincidente con l'emergere della religione Bahá'í dall'oscurità e l'espansione del credo in tutto il mondo.

L'Età formativa sarebbe seguita da una situazione di crisi mondiale tale da costringere i popoli e le nazioni a rivedere i loro concetti di politica internazionale fondando una confederazione mondiale, dotata di vero governo mondiale espressione di un vero parlamento mondiale eletto dai popoli del mondo e non dai loro governi, e dotata, inoltre, di un tribunale internazionale per dirimere le contese di interessi tra nazioni ed evitare la guerra con sentenze vincolanti fatte valere da uno stabile esercito mondiale con totale abolizione degli eserciti nazionali da esso sostituiti; questa situazione di unità confederale mondiale e semplice cessazione della guerra è definita “Pace Minore” a cui poi, nei secoli, seguirà una futura età d'oro in cui la religione Bahá'í sarà abbracciata dalla maggioranza delle persone in un gran numero di Stati confederati del mondo e che viene chiamata “Pace Maggiore” e nella quale l'unità mondiale non sarà solo istituzionale e confederale ma anche sentita dai popoli come parte ed espressione dell'unità divina.

La pace | Per approfondire

La parola agli esperti: "perché sì"

Gli autori che hanno espresso testimonianze a favore della pace sono, naturalmente, numerosissimi: essi sono ispirati da ideali diversi, di natura religiosa o civile, ma tendono tutti a delineare una società mondiale capace di vivere in armonia e di risolvere i conflitti senza far ricorso alla violenza.

Victor Hugo, Discorso inaugurale alla Conferenza di Pace di Parigi, 1849

Molti di voi vengono dai punti più lontani del globo, col cuore pieno di un pensiero religioso e santo […]. Voi state per aggiungere ai principi che dirigono oggidì gli uomini di Stato […] un principio superiore. Voi state per aggiungere al Vangelo un ultimo e più augusto foglio, quello che impone la pace ai figli dello stesso Iddio; e, in questa città che finora ha proclamato soltanto la fratellanza dei cittadini, voi state per proclamare la fratellanza degli uomini. Siate i benvenuti! Signori, è un pensiero pratico questo pensiero della Pace universale che vuole tutte le nazioni legate fra loro da un legame comune, col Vangelo per legge suprema, sostituendo la mediazione alla guerra? È questa un’idea realizzabile? Molti di coloro che si dicono spiriti positivi rispondono no. Quanto a me. Io rispondo senza esitare: sì. Io vado ancora più lontano: non dico soltanto è una meta raggiungibile, dico è una meta inevitabile: è possibile affrettarne o ritardarne il compimento… Ecco tutto. La legge del mondo non è, non può essere distinta da quella di Dio. Ora la legge di Dio non è la guerra, è la pace. Gli uomini hanno cominciato colla lotta, come la creazione col caos. Donde vengono? Dalla guerra, questo è evidente […]. Ma dove vanno? Alla pace. Questo pure è evidente. Verrà un giorno in cui […] la guerra sembrerà così  assurda ed impossibile fra Parigi e Londra, fra Pietroburgo e Berlino, da parere impossibile come ai dì nostri una guerra fra Rouen ed Amiens, fra Boston e Philadelphia. Verrà un giorno in cui in Francia, in Russia, in Italia, in Inghilterra, in Germania, in tutte le nazioni del continente, senza perdere le nostre qualità distinte e le nostre gloriose individualità, vi unirete serenamente in una unità superiore e costruirete la fratellanza europea, così come la Normandia, la Bretagna, la Borgogna e tutte le nostre province si sono fuse nella Francia […].  Verrà un giorno in cui non esisteranno più altri campi di battaglia se non i mercati, che si apriranno al commercio, e gli spiriti, che sono aperti alle idee. Verrà un giorno in cui le pallottole e le granate saranno sostituite dal diritto di voto, dall’armonizzazione universale dei popoli, dal rispettabile tribunale arbitrale di un senato grande e sovrano […]. Verrà un giorno in cui si vedrà come i due grandi gruppi di Paesi, gli Stati Uniti d’America e gli Stati Uniti d’Europa […], si guarderanno in faccia, si porgeranno la mano attraverso i mari, scambieranno i loro prodotti, il loro commercio, le loro industrie, le loro arti, i loro geni al fine di trarre dalla collaborazione fra le due forze infinite, fra la fraternità degli uomini e l’onnipotenza di Dio, il maggiore benessere possibile per tutti! D’ora in poi il fine dell’alta e vera politica sarà il seguente: lavorare per il riconoscimento delle nazionalità, ristabilire l’unità storica dei popoli e combinare  questa unità, mediante la pace, con la civiltà, aumentare continuamente il numero dei popoli civilizzati, dare un buon esempio ai popoli ancora barbari e sostituire le guerre con tribunali arbitrali. In poche parole, che contengono tutto: il diritto deve avere l’ultima parola, che nel vecchio mondo era pronunciata dalla forza.


Joseph Rotblat, Nessuna pace è possibile con le armi nucleari

Lasciate che vi ricordi che il disarmo nucleare non è solo un ardente desiderio dei popoli, così come è espresso in numerose risoluzioni delle Nazioni Unite, ma che si tratta di un impegno che i cinque Paesi che detengono ufficialmente le armi nucleari si sono assunti formalmente, con il Trattato di Non Proliferazione. Solo pochi mesi fa, quando ne è stata decisa l'estensione a tempo indeterminato, le potenze nucleari si sono nuovamente impegnate al disarmo nucleare completo. Questo è ancora il loro traguardo ufficiale, ma le dichiarazioni formali non collimano con le loro politiche a livello pratico e la divergenza sembra essere intrinseca.

Dalla fine della guerra fredda, le due principali potenze nucleari hanno iniziato a ridurre significativamente i loro arsenali nucleari. Ognuna sta smantellando circa 2000 testate nucleari all'anno. Se questo programma continuasse, tutte le testate nucleari potrebbero essere smantellate nel giro di poco più di dieci anni. Siamo tecnicamente in grado di creare un mondo libero da armi nucleari in dieci anni circa. Purtroppo il programma attuale non fa in modo che ciò accada: quando il trattato START II è stato siglato – e ricordiamoci che non è stato ancora ratificato – esistevano la bellezza di 15.000 armi nucleari, attive e in riserva. Quindicimila armi con una potenza media di 20 bombe di Hiroshima.

Se non interviene subito un cambiamento fondamentale nel modo di pensare, non vedremo ancora per molto tempo, e forse non vedremo mai, l'azzeramento degli arsenali nucleari. E la base di questo modo di pensare attualmente è rappresentata dalla deterrenza nucleare.
Ciò si legge chiaramente nella Nuclear Posture Review americana che si concludeva con l'affermazione, poi ripresa da altre potenze nucleari «L'ambiente del dopo-guerra fredda richiede la deterrenza nucleare». Le armi nucleari sono conservate come baluardo contro pericoli non specificati.

Questa politica è semplicemente la continuazione inerziale dell'era della guerra fredda. La guerra fredda è finita, ma il modo di pensare della guerra fredda rimane. Allora ci dicevano che la terza guerra mondiale era stata sventata grazie all'esistenza delle armi nucleari. Oggi ci dicono che le armi nucleari servono a impedire qualsiasi tipo di guerra. Questi sono argomenti che hanno la pretesa di fornire delle prove in negativo. Mi torna in mente la storiella che si raccontava quando ero ragazzo, ai tempi dell'introduzione delle comunicazioni via radio.

Due uomini anziani e saggi stanno discutendo riguardo al passato splendore della civiltà delle rispettive nazioni. Uno dice: «Il mio Paese ha una grande tradizione di sviluppo tecnologico. Abbiamo fatto degli scavi e trovato un cavo; il che dimostra come già in tempi remoti avessimo il telegrafo». L'altro uomo ribatte: «Anche noi abbiamo fatto degli scavi e non abbiamo trovato assolutamente niente; il che dimostra che già allora avevamo la comunicazione senza fili!».

Non c'è alcun elemento che provi direttamente che le armi nucleari abbiano impedito una terza guerra mondiale. Al contrario è risaputo che ne hanno quasi provocata una. Il più terrificante periodo della mia vita fu l'ottobre del 1962, durante la crisi dei missili di Cuba. Non ero a conoscenza di tutti i fatti – solo di recente abbiamo appreso quanto siamo andati vicino alla guerra, ma quello che sapevo era sufficiente a farmi venire i brividi. Milioni di vite all'improvviso potevano finire; milioni di altre sarebbero state condannate a una lenta agonia; gran parte della nostra civiltà sarebbe andata distrutta. Tutto dipendeva dalla decisione di un solo uomo, Nikita Krusciov: si sarebbe piegato all'ultimatum degli Stati Uniti oppure no? Nel 1962 l'Unione Sovietica avviò l'installazione di missili nucleari a Cuba, come deterrente contro qualsiasi aggressione contro l'isola da parte degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti pretesero il ritiro dei missili e le due superpotenze si trovarono così sull'orlo della guerra nucleare. Alla fine Nikita Krusciov, premier sovietico e presidente del partito comunista, acconsentì al ritiro dei missili, e la crisi rientrò. Il vero volto delle armi nucleari è questo: possono dare inizio a una guerra mondiale, una guerra che, a differenza di quelle combattute in precedenza, distrugge l'intera civiltà.

Quanto all'asserzione che le armi nucleari possano servire da deterrente preventivo delle guerre, quante altre guerre sono necessarie per delegittimare questo argomento? Dieci milioni di persone sono morte nei numerosi conflitti che hanno avuto luogo dal 1945 in poi. Alcuni di questi videro coinvolte delle potenze nucleari e, in più, in due occasioni potenze nucleari coinvolte furono sconfitte e il possesso di armi nucleari non fu loro di alcun aiuto.

Insomma, non c'è alcuna prova che un mondo senza armi nucleari sarebbe pericoloso. Al contrario, sarebbe un mondo più sicuro.


Boris Vian, Il disertore

Malgrado le numerose modifiche apportate da Boris Vian al testo della sua canzone, presentata nel 1954, nel gennaio del 1955 il consigliere municipale parigino Paul Faber ottiene la censura completa della canzone in radio. Boris Vian reagisce con la sua consueta ironia: la sua prima dichiarazione è che «la mia canzone non è affatto antimilitarista, ma, lo riconosco, violentemente pro-civili». Riportiamo di seguito il testo della canzone e un brano della lettera scritta da Vian a Faber.

Questa lettera qui,
Egregio Presidente,
se il tempo lo consente
forse la leggerà.
Ho appena ricevuto
la carta di chiamata
per guerra dichiarata
non so da chi e per chi.
Illustre Presidente
io non la voglio fare:
non son qui per ammazzare
altra gente come me.
Le devo dichiarare,
sia detto senza offesa,
la decisione presa:
certo, diserterò!

Da quando sono nato
partenze, lutti e pianti
ne ho già vissuti tanti
che non ne voglio più.
Mia madre e mio papà
già sono al cimitero:
se ne infischiano davvero
di bombe e vermi, là.
Quand'ero prigioniero
mia moglie hanno stuprato
ed anche il mio passato
e la mia dignità.
Domani, a buon mattino,
io chiuderò la porta
su un'esperienza morta
e in strada me ne andrò.

In Bretagna o in Provenza,
in giro per la Francia
vivrò con qualche mancia
e alla gente dirò:
Rifiuta d'obbedire,
non andare alla guerra,
rifiuta di farla,
rifiuta di partir.
Se è necessario il sangue,
Illustre Presidente,
il vostro è caldo, è ardente:
andate a darne un po'.
Se mi perseguirà
avverta i suoi gendarmi
che io non porto armi
e mi potran sparar.

No, signor Faber, non cerchi l'insulto dove non esiste e, se lo trovate, sappiate che siete voi ad avercelo messo. Dico chiaramente quel che voglio dire; e mai ho voluto insultare gli ex combattenti delle due guerre, i resistenti (tra i quali conto numerosi amici) e i morti in guerra (tra i quali ne contavo molti altri). Quando insulto (e non mi succede mai), lo faccio francamente, mi creda. Non insulterò mai delle persone come me, dei civili, che sono stati rivestiti con un'uniforme per poterli ammazzare come oggetti e nulla più, riempiendo loro la testa di vuote parole d'ordine e di scuse fallaci. Combattere senza sapere perché si combatte è proprio di un imbecille, e non di un eroe; eroe è colui che accetta la morte quando sa che essa sarà utile ai valori che difende. Il disertore della mia canzone altro non è che un uomo che non sa; e chi glielo spiega? Non so di quale guerra lei sia ex combattente; ma se ha fatto la prima, riconosca di essere stato più dotato per la guerra che per la pace. Chi, come me, aveva vent'anni nel 1940, ha ricevuto proprio un bel regalo di compleanno. Non faccio finta di inserirmi tra i coraggiosi: sono stato riformato in seguito a una malattia cardiaca, non ho combattuto, non sono stato deportato, non ho collaborato; e sono rimasto, per quattro anni interi, un imbecille mezzo denutrito in mezzo a tanti altri, uno che non capiva perché, per capire, sia necessario che qualcuno glielo spieghi. Oggi ho trentaquattro anni, e le dico: se si tratta di difendere coloro che amo, combatterei immediatamente. Se si tratta di morire di napalm per una guerra ignobile, come oscura pedina in una mischia guidata da interessi politici, mi rifiuto e mi do alla macchia. Farò la mia propria guerra. Il Paese intero è insorto contro la guerra in Indocina quando finalmente ha saputo che cosa fosse veramente; e i giovani che si sono fatti ammazzare laggiù perché credevano di servire a qualcosa  ̶ come avevano loro detto  ̶, io non li insulto, li piango. Tra di loro si trovavano, chissà, dei grandi pittori , dei grandi musicisti; e, sicuramente, della brava gente. Quando si vede una guerra finire in un mese per volontà di uno che non si nega certo, su questo argomento, di ricorrere a parole gloriose e fumose, si è portati a credere per forza, se mai non lo si fosse capito, che quella guerra non fosse per nulla inevitabile. 

La pace | Per approfondire

La parola agli esperti: "perché no"

Senza considerare le posizioni più estreme a favore della guerra, espressione di ideali politici aggressivi (è il caso del nazismo) o frutto di provocazioni ben studiate (si pensi ai futuristi italiani), numerosi studiosi si sono dedicati all'elaborazione del concetto di “guerra giusta” o hanno messo in guardia dai pericoli di un pacifismo di facciata, ispirato da motivazioni di convenienza politica e incapace di aiutare le vittime della violenza. Il testo di Michael Walzer è dedicato all'intervento internazionale in Kosovo, del 1999, contro il regime serbo di Milosevic. Luigi Manconi, poi, espone ragioni analoghe a favore dell'intervento armato in Libia contro Gheddafi, nel 2011.

Michael Walzer, La guerra “giusta”

Bobbio sostiene che questa guerra era necessaria ma che essa non si può legittimare nei vecchi termini di “guerra giusta”. Questo concetto è stato abbandonato, sostiene il suo collega italiano, durante le guerre dell'equilibrio europeo prima della Prima guerra mondiale. Ma forse lei non sarà d'accordo.
E non lo sono infatti. Quelli che Bobbio chiama i «vecchi termini di guerra giusta» non sono stati abbandonati. Tutt'altro. Ho partecipato alle discussioni sulla guerra del Vietnam negli Stati Uniti senza sapere nulla, a quell'epoca, della teoria della guerra giusta. Ma ho imparato cose sulla teoria da questa pratica politica: gli argomenti che usavamo contro la guerra e gli argomenti impiegati dai suoi sostenitori provenivano tutti, per dir così, dall'arsenale della teoria della guerra giusta. Eravamo teorici senza coscienza teorica. E quando ho scritto “guerre giuste e guerre ingiuste” io ho semplicemente sviluppato in maniera più formale quello che avevo già elaborato in una maniera pratica. Oggi la situazione è la stessa: tutte le risorse che occorrono per parlare dell'intervento militare, tutti i concetti e gli argomenti che appaiono ora sui giornali quotidiani derivano dai vecchi libri sulla guerra giusta.

Se ho capito bene la sua opinione, lei sostiene che la guerra deve essere portata avanti fino in fondo dalla Nato, la quale deve impiegare tutti i mezzi militari necessari allo scopo, compreso l'intervento sul terreno. Bombardare la Serbia senza mandarci i soldati rischia di aiutare Milosevic nella sua strategia di pulizia etnica. È così?
Non sono né un militare né uno stratega militare. E non so se le forze di terra sono un mezzo necessario per vincere nel Kosovo. Quello di cui sono convinto è che gli stati dotati di eserciti che non possano essere messi a rischio non sono moralmente o militarmente qualificati per intervenire nel nome dei diritti umani. Se c'è gente che viene assassinata, terrorizzata, portata via dalle sue case, una risposta militare sul terreno deve essere, almeno, una opzione disponibile. Non si può usare la forza nel Paese di qualcun altro se non si è preparati ad affrontare tutte le conseguenze della scelta di farlo. E non si può dire che si affronteranno le conseguenze di quella scelta soltanto fino a quando i tuoi soldati non saranno messi in gioco.

Lei dice che noi    ̶ noi come mondo civile, occidente, Europa   ̶ non dovremmo permettere senza reagire che accadano i massacri cambogiani, i crimini di Amin e altre simili cose. Ogni volta che i diritti umani sono violati da qualche parte è giustificato un intervento militare esterno?
Fermare i crimini contro l'umanità è qualcosa che i filosofi morali chiamano un “dovere imperfetto”. Questo significa che si tratta di un dovere che non si può attribuire a nessun agente particolare. Qualcuno dovrebbe agire, ma nessun singolo agente o gruppo di agenti, nessuno Stato e nessuna alleanza regionale di Stati sono obbligati a farlo. Se l'Onu può agire, vale a dire se tutti gli Stati con il potere di veto nel Consiglio di sicurezza sono d'accordo, questa è probabilmente la migliore risposta. O forse la migliore risposta è se uno Stato vicino, o un gruppo di Stati vicini, interviene. C'è una serie di considerazioni prudenziali che sarebbero qui rilevanti. Ma, sì, rispondo di sì, se i crimini sono reali, se essi includono il genocidio, o la messa in schiavitù su larga scala, o la pulizia etnica, e se la diplomazia non riesce a fermare quello che si deve fermare, allora l'intervento militare è sempre giustificato.

Bobbio ha avanzato anche una tesi estrema, una sorta di provocazione filosofica: gli Stati Uniti hanno una sorta di hegeliano “diritto assoluto” senza i limiti rappresentati da altri poteri perché essi sono il potere egemone alla fine di questo secolo. Sono stati non solo i vincitori di tre guerre mondiali, ma i vincitori dalla parte dei valori della libertà e della democrazia. Il loro potere assoluto è dunque, per così dire, storicamente meritato. Il che costringe a essere filoamericani, senza alternative almeno fino a quando l'Europa non avrà una sua politica estera e una sua forza militare autonoma.
Come americano, eviterei argomenti di questo genere. Ma li avverso anche come filosofo che respinge ogni versione del “diritto assoluto” hegeliano. Una “pax americana” non sarebbe la cosa peggiore che possa capitare al mondo, ma non è il nome che do alle mie aspirazioni. La mia speranza a breve termine punta verso un equilibrio di poteri di stile, diciamo, classico, possibilmente senza guerre fredde o rivalità nucleari. E la prospettiva più immediata è che il potere degli Stati Uniti sia bilanciato dall'Europa. Per questo avrei voluto vedere a suo tempo un intervento europeo in Bosnia, senza l'iniziativa o la leadership americana. Ma sono d'accordo con Bobbio: in assenza di un'Europa indipendente, noi della sinistra dobbiamo appoggiare gli interventi congiunti Stati Uniti-Europa dovunque siano necessari ed efficaci. In generale, certo, è meglio se i valori umani sono difesi da più di un solo agente.


Luigi Manconi, La guerra “giusta” di Libia

Ne valeva la pena? Mentre il regime di Muhammar Gheddafi si avvia al crollo finale, è doveroso porsi questa domanda, tenendo ben presente il dato atroce delle circa 50mila vittime rimaste sul terreno. Le cose sono tanto complicate che, prioritariamente, ci si deve domandare se sia lecito utilizzare un indicatore di tipo “economico”  ̶  l’analisi del rapporto tra costi e benefici   ̶ per valutare l’opportunità e, insieme, la moralità dell’azione militare. Chi, come me e come questo giornale ne è stato convinto, non può accontentarsi né del fatto che, a motivare l’intervento fosse la ferocia del Regime di Gheddafi né che, a volerlo, sia stata una risoluzione dell’Onu né che l’azione armata sia andata a buon fine. Tutti ottimi argomenti, ma più e prima pesano altre ragioni sulle quali è giusto sollecitare la riflessione di quanti, i pacifisti in primo luogo, non avrebbero voluto questa nuova “guerra di Libia”. Chi, come me, non è ostile al pacifismo (al contrario), continua a considerarlo come un’opzione fondamentale proprio in ragione della sua forza profetica: un segno, un messaggio, un annuncio che viene prima e va oltre la politica e al quale tuttavia la politica non può sottrarsi ma nemmeno meccanicamente uniformarsi, in quanto opera in un campo differente e incomparabile. Il pacifismo allude a un assoluto, che attiene a una sfera diversa da quella della politica. Quest’ultima lavora, invece, nel tempo storico, cerca la mediazione, scende a patti con l’avversario: mentre il pacifismo è una pietra angolare che misura la distanza tra politica e morale e indica come essa possa essere ridotta, nella consapevolezza che la prima non possa né identificarsi con la seconda né sottrarsi al giudizio di essa. Ma se il pacifismo è, appunto, un assoluto, in cosa consiste la sua natura incondizionata, se non nel porre l’incolumità della vita umana come valore primo e fondamentale? Come può, pertanto, il pacifismo non intervenire laddove una qualunque vita umana subisca un attentato? Come può impedirglielo il solo fatto che il mezzo cui si è costretti a ricorrere non è incruento? Ovvero: può esistere un pacifismo non interventista? Certo i mezzi di quell’intervento sono tutti da discutere, ma è prioritario affermare che è proprio del pacifismo entrare in campo, interferire, agire. E se   ̶  a tal fine   ̶  un mezzo non risulti efficace, si deve ricorrere a un altro. Insomma un pacifismo che non abbia esclusivamente una vocazione testimoniale, deve considerare, con la dovuta prudenza, il problema dell’uso della forza a tutela delle vittime. E qui interviene un altro fattore. C’è un momento, nelle dinamiche storiche, in cui la questione del tempo impone scelte ineludibili. È esattamente quanto è accaduto in occasione dell’intervento militare in Libia. I pacifisti hanno tutte le ragioni del mondo, e sono anche le mie ragioni, a dire che si doveva intervenire prima, molto prima. Quando i mezzi nonviolenti, l’attività diplomatica, la pressione internazionale, avrebbero potuto condizionare il regime di Gheddafi; quando si sarebbe potuto evitare di firmare un patto di amicizia con la Libia così indecentemente oneroso per l’Italia e per i diritti umani; quando un’attività di comunicazione e informazione avrebbe potuto contrastare la capacità del regime di manipolare l’opinione pubblica interna e internazionale.
Tutto ciò è assolutamente vero e non è solo senno del poi, perché potrebbe costituire un prontuario di ciò che è utile fare oggi nei confronti di altri regimi dispotici. Ma quel giorno di quel mese di quell’anno (ovvero appena poche settimane fa), quando l’esercito di Gheddafi bombardava gli oppositori, cos’altro era possibile fare, se non opporre forza a forza? La priorità assoluta della tutela della vita umana come fondamento dello stesso pacifismo e l’ineludibile fattore rappresentato dal tempo (cosa faccio oggi, quando la guerra di Gheddafi è già in atto?), costituivano buoni argomenti a favore dell’intervento. E questo perché l’analisi dei costi/benefici, pur così dolorosa, impone di considerare l’abbattimento di un regime dispotico come una posta in gioco per la quale mettere in conto sia la perdita di vite umane che un futuro pieno di incognite. Personalmente ne traggo una conclusione: quando non è l’espressione di una profonda ispirazione religiosa, il pacifismo è in primo luogo un metro di misura. Un meglio al quale comparare le scelte quotidiane, pragmatiche e talvolta fatalmente “sporche”. Una meta alla quale tendere, modificando azioni e comportamenti perché risultino il più coerenti possibile (o il meno incoerenti possibile) rispetto a un modello ottimale. In altre parole, vale anche in questo caso un principio che dovrebbe orientare costantemente l’agire politico. Quest’ultimo non vive di assoluti, ma di atti concreti in situazioni concrete, dove l’opzione per il male minore è la più alta scelta morale consentita.


Romano Amerio, Cristianesimo e guerra

Della Chiesa dunque è proprio non il pacifismo assoluto, che assolutizza la vita, ma il pacifismo relativo, che condiziona la pace alla giustizia e la guerra pure. Ma il più gagliardo fautore del pacifismo, Erasmo da Rotterdam, nella Querela pacis e nella parafrasi del Pater noster, insegna al contrario che «non c’è pace ingiusta che non sia preferibile alla più giusta delle guerre». E diffuse correnti di opinione hanno sposato l’irenismo, cioè il pacifismo, assoluto e possono invocare suffragi autorevoli. Il card. Poma, arcivescovo di Bologna, in “Osservatore Romano” del 4 maggio 1974, scriveva: «Nulla più che la guerra è contrastante col Cristianesimo. In essa, che è la sintesi di tutti i peccati, la superbia s’incontra con lo scatenarsi degli istinti inferiori». Ma asserzioni così mancanti di distinzioni e di senso storico sono contrarie a secoli di Cristianesimo, alla riconosciuta santità di guerrieri, come Giovanna d’Arco, e alla celebrazione che della guerra giusta fece Paolo VI in un documento speciale per il quinto centenario della morte dello Scanderbeg. Lo stesso Paolo VI, ricordando  in un  discorso la visita di Pio XII al popolo di Roma dopo i bombardamenti del 1943 e il grido di un giovane: «Papa, Papa, meglio la schiavitù che la guerra! Liberaci dalla guerra!», qualificò un tal grido di “folle”. Vi sono certo dichiarazioni di Paolo VI che proclamano «l’assurdità della moderna guerra» e «la suprema irrazionalità della guerra» (Osservatore Romano, 21 dicembre 1977). E vi è infine la dichiarazione di Giovanni Paolo II a Coventry nel maggio 1982: «Oggi la portata e l’orrore della guerra moderna, sia essa nucleare o convenzionale, rendono questa guerra totalmente inaccettabile per comporre dispute e vertenze tra le nazioni». Tuttavia, se si osservano i termini delle due dichiarazioni papali, si riconoscerà che esse non escono dai principii tradizionali della teologia della guerra e ne costituiscono uno di quegli sviluppi della coscienza morale che dipendono dalla variazione delle circostanze. La liceità della guerra è infatti legata a condizioni: che sia dichiarata da chi ha l’autorità; che si proponga di riparare  un diritto violato; che vi sia fondata speranza  di conseguire tale riparazione; che sia condotta con moderazione. Queste condizioni sono ricevute anche nell’articolo 137 del Codice sociale elaborato dall’Unione internazionale di studi sociali fondata dal card. Mercier e riflettono un’ininterrotta tradizione delle scuole cattoliche.

In Gaudium et spes, 79-80, il Vaticano II ha confermato la liceità della  guerra difensiva, ha condannato la guerra offensiva intrapresa come mezzo di risolvere le contese tra nazioni, e infine ha proscritto senza eccezioni la guerra totale, innanzitutto quella atomica. Quanto al servizio militare che i cittadini prestano per la sicurezza e la libertà della patria, il Concilio non  solo lo ammette, ma dichiara altresì che «esercitando un tal dovere essi contribuiscono realmente  a stabilire la pace». È per l’inadempienza di una delle  condizioni predette che il diritto di guerra deve essere riesaminato con mentalità del tutto nuova e che il Concilio sentenzia: «ogni azione bellica tendente alla distruzione indiscriminata di intere città o vaste regioni con tutta la loro popolazione è un crimine contro Dio e contro l’uomo, da condannare con forza e senza esitazione». La guerra totale è vietata anche nel caso di legittima difesa che, per mancanza di moderazione, diviene anch’essa illegittima. Il Concilio, il quale insegna la guerra di difesa contro l’aggressione essere lecita, «finché non sia costituita un’autorità internazionale competente e munita di congrue forze coattive», insegna parimenti che essa diviene illecita  quando miri allo sterminio totale  del nemico. Sono dunque condannate la guerra intrapresa offensivamente per risolvere  un  litigio  e  la guerra, offensiva o difensiva che sia, condotta senza il moderamen inculpatae tutelae. Non è invece condannata la guerra difensiva condotta con quel moderamen. È per la circostanza nuova della totalità della guerra che la valutazione morale della guerra (come d’altronde di tutte le cose secondo che sono diversamente circostanziate) rimane mutata.

 Il Vaticano II dice espressamente: «Finché non sia costituita un’autorità internazionale competente munita di congrue forze per costringere i trasgressori, non si  potrà  negare ai governi il diritto di legittima difesa». Se nei singoli Stati l’autorità sociale perime il diritto individuale di farsi giustizia, anche nella costituenda società internazionale, che è un consorzio non di enti sovrani, ma di soci, tutti soggetti, l’autorità perime il diritto dei singoli Stati di farsi giustizia da sé. Dallo stato selvaggio in cui giace ancora la comunità dei popoli, il genere  umano deve organizzarsi in  una  perfetta societas populorum quale auspicò Leone XIII e delineò in concreto Benedetto XV giusta la tradizione della teologia cattolica dai Medievali al Suarez, dal Campanella al Taparelli d’Azeglio. Non sarà allora eliminata la guerra (si badi bene), ma si saprà che chi guerreggia per farsi giustizia da sé, quasi fosse sovrano, è ingiusto, e la guerra condotta contro di lui dall’unica autorità avrà il carattere della giustizia. L’uso della forza da parte dell’autorità etnarchica allo scopo di reprimere il violatore della giustizia è il principio dell’ordine e della pace internazionali. Le società nazionali si disfanno nell’anarchia quando l’autorità perde l’uso della forza: la società etnarchica non meno.

GlossarioBiografie

Antropologia

È la disciplina che studia l’essere umano sotto diversi punti di vista: sociale, culturale, psico-evolutivo, artistico, espressivo, filosofico, religioso e, in genere, dal punto di vista del suo comportamento all’interno della società.


Bahá'í

La fede Bahá'í  è una religione monoteistica nata in Iran a metà del XIX secolo, i cui membri seguono gli insegnamenti di Bahá'u'lláh (1817-1892). La religione Bahá'í conta circa 7 milioni di fedeli sparsi in oltre duecento Paesi e territori di tutto il mondo.


Diritti umani

I diritti umani (riassunti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, del 1948) sono i diritti che i trattati internazionali garantiscono in linea di principio a ogni persona, indipendentemente dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione, dalla condizione sociale e da altri fattori di discriminazione.
Essi vanno al di là dei diritti del cittadino in quanto sono universali, inoltre non coincidono con quelli dei popoli, poiché appartengono in primo luogo all'individuo, anche quando, per loro natura, sono diritti che devono essere esercitati in forma collettiva (si pensi, ad esempio, al diritto di sciopero).


Amerio

Amerio, Romano

Romano Amerio (1905-1997) è stato filosofo, filologo e teologo, caratterizzato da posizioni fortemente critiche sugli sviluppi post-conciliari nella liturgia e nell'ecclesiologia cattolica.

Bobbio

Bobbio, Norberto

Norberto Bobbio (1909-2004) è stato un filosofo, giurista, storico e politologo, considerato al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo italiano della politica nella seconda metà del Novecento.

Erasmo da Rotterdam

Erasmo da Rotterdam

Erasmo da Rotterdam (1466-1536) è stato un teologo e filosofo olandese, considerato il maggior esponente dell’umanesimo cristiano.

Francesco

Francesco

Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel 1936. Dal 13 marzo 2013 è il 266° papa della Chiesa cattolica: è il primo pontefice proveniente dal continente americano, nonché il primo ad appartenere alla Compagnia di Gesù.

Gandhi

Gandhi, Mohandas Karamchand

Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948) è stato un filosofo e politico indiano, celebre soprattutto per il suo impegno a favore dell’indipendenza dell’India.

Gheddafi

Gheddafi, Muhammar

Muhammar Gheddafi (1942-2011) è stato un militare e politico libico, capo dello Stato fino alla sua uccisione nel corso della guerra civile.

Giovanni XXIII

Giovanni XXIII

Giovanni XXIII (1881-1963), al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, è stato il 261° papa della Chiesa Cattolica, dal 1958 al 1963. È ricordato con l'appellativo di "Papa buono". Il 27 aprile 2014 è stato proclamato santo insieme a Giovanni Paolo II.

Hugo

Hugo, Victor

Victor Hugo (1802- 1885), francese, è noto universalmente per la sua opera di scrittore, poeta, drammaturgo e saggista, ma è stato anche un convinto sostenitore dei diritti civili.

Kant

Kant, Immanuel

Immanuel Kant (1724-1804) è stato un filosofo tedesco, fra i principali rappresentanti dell’illuminismo tedesco e anticipatore della filosofia idealistica.

Krusciov

Krusciov, Nikita

Krusciov Nikita (1894-1971) è stato un politico sovietico: dopo la morte di Stalin divenne capo dello Stato, carica che resse fino al 1964. Fu il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti.

Manconi

Manconi, Luigi

Luigi Manconi, nato nel 1948, è un sociologo, politico, parlamentare, scrittore e critico musicale. Si occupa di temi civili, legati alla giustizia e alle iniziative di pace.

Ramadan

Ramadan, Tariq

Tariq Ramadan è docente universitario a Oxford, scrittore e giornalista svizzero. Ramadan sostiene la necessità di interpretare correttamente i testi e la natura eterogenea dell'Islam.

Rotblat

Rotblat, Joseph

Joseph Rotblat (1908-2005) è stato un fisico nucleare inglese di origini polacche. Nel 1995 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la pace, per i suoi sforzi a favore del disarmo nucleare.

Vian

Vian, Boris

Boris Vian (1920-1959), francese, è stato scrittore, paroliere, drammaturgo, poeta, musicista e traduttore.

Walzer

Walzer, Michael

Michael Walzer, nato a New York nel 1935, è un filosofo che si occupa di filosofia politica, sociale e morale. Attualmente insegna a Princeton e collabora con alcune importanti riviste politiche e accademiche.

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Antropologia

È la disciplina che studia l’essere umano sotto diversi punti di vista: sociale, culturale, psico-evolutivo, artistico, espressivo, filosofico, religioso e, in genere, dal punto di vista del suo comportamento all’interno della società.

Bahá'í

La fede Bahá'í  è una religione monoteistica nata in Iran a metà del XIX secolo, i cui membri seguono gli insegnamenti di Bahá'u'lláh (1817-1892). La religione Bahá'í conta circa 7 milioni di fedeli sparsi in oltre duecento Paesi e territori di tutto il mondo.

Diritti umani

I diritti umani (riassunti dalla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, del 1948) sono i diritti che i trattati internazionali garantiscono in linea di principio a ogni persona, indipendentemente dalla cittadinanza, dal sesso, dalla religione, dalla condizione sociale e da altri fattori di discriminazione.
Essi vanno al di là dei diritti del cittadino in quanto sono universali, inoltre non coincidono con quelli dei popoli, poiché appartengono in primo luogo all'individuo, anche quando, per loro natura, sono diritti che devono essere esercitati in forma collettiva (si pensi, ad esempio, al diritto di sciopero).

Amerio

Romano Amerio

Romano Amerio (1905-1997) è stato filosofo, filologo e teologo, caratterizzato da posizioni fortemente critiche sugli sviluppi post-conciliari nella liturgia e nell'ecclesiologia cattolica.

Bobbio

Norberto Bobbio

Norberto Bobbio (1909-2004) è stato un filosofo, giurista, storico e politologo, considerato al tempo stesso il massimo teorico del diritto e il massimo filosofo italiano della politica nella seconda metà del Novecento.

Erasmo da Rotterdam

Erasmo da Rotterdam

Erasmo da Rotterdam (1466-1536) è stato un teologo e filosofo olandese, considerato il maggior esponente dell’umanesimo cristiano.

Francesco

Francesco

Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel 1936. Dal 13 marzo 2013 è il 266° papa della Chiesa cattolica: è il primo pontefice proveniente dal continente americano, nonché il primo ad appartenere alla Compagnia di Gesù.

Gandhi

Mohandas Karamchand Gandhi

Mohandas Karamchand Gandhi (1869-1948) è stato un filosofo e politico indiano, celebre soprattutto per il suo impegno a favore dell’indipendenza dell’India.

Gheddafi

Muhammar Gheddafi

Muhammar Gheddafi (1942-2011) è stato un militare e politico libico, capo dello Stato fino alla sua uccisione nel corso della guerra civile.

Giovanni XXIII

Giovanni XXIII

Giovanni XXIII (1881-1963), al secolo Angelo Giuseppe Roncalli, è stato il 261° papa della Chiesa Cattolica, dal 1958 al 1963. È ricordato con l'appellativo di "Papa buono". Il 27 aprile 2014 è stato proclamato santo insieme a Giovanni Paolo II.

Hugo

Victor Hugo

Victor Hugo (1802- 1885), francese, è noto universalmente per la sua opera di scrittore, poeta, drammaturgo e saggista, ma è stato anche un convinto sostenitore dei diritti civili.

Kant

Immanuel Kant

Immanuel Kant (1724-1804) è stato un filosofo tedesco, fra i principali rappresentanti dell’illuminismo tedesco e anticipatore della filosofia idealistica.

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Krusciov Nikita (1894-1971) è stato un politico sovietico: dopo la morte di Stalin divenne capo dello Stato, carica che resse fino al 1964. Fu il primo leader sovietico a visitare gli Stati Uniti.

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Luigi Manconi, nato nel 1948, è un sociologo, politico, parlamentare, scrittore e critico musicale. Si occupa di temi civili, legati alla giustizia e alle iniziative di pace.

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Tariq Ramadan

Tariq Ramadan è docente universitario a Oxford, scrittore e giornalista svizzero. Ramadan sostiene la necessità di interpretare correttamente i testi e la natura eterogenea dell'Islam.

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Joseph Rotblat

Joseph Rotblat (1908-2005) è stato un fisico nucleare inglese di origini polacche. Nel 1995 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la pace, per i suoi sforzi a favore del disarmo nucleare.

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Boris Vian

Boris Vian (1920-1959), francese, è stato scrittore, paroliere, drammaturgo, poeta, musicista e traduttore.

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Michael Walzer, nato a New York nel 1935, è un filosofo che si occupa di filosofia politica, sociale e morale. Attualmente insegna a Princeton e collabora con alcune importanti riviste politiche e accademiche.

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