Pierdomenico Perata, L'unico nemico è il terrorismo pseudo-scientifico
C’è fastidio e rassegnazione nelle parole di Pierdomenico Perata, che sorride al ricordo di quel soprannome con cui la scienza motteggia l’atteggiamento con cui i media guardano agli OGM: organismi giornalisticamente modificati. Nel clima di sospetto che verte attorno ai cibi transgenici la stampa ha giocato un ruolo chiave: «Ai giornalisti piace inventare titoli a effetto. E così nascono anche leggende che non esistono, come la “fragola-pesce”, o la storia che i semi OGM sarebbero sterili».
Eppure, tra ricercatori, scienziati e biotecnologi il fronte sembra compatto nel guardare con favore agli OGM.
Tutte le accademie scientifiche nazionali hanno preso posizione: non esiste un problema OGM a livello scientifico. Ormai non sono considerati una minaccia per la salute delle persone o dell’ambiente, su questo proprio non c’è più dibattito. Può starci invece la considerazione che a ciò debba fare seguito una liberalizzazione del commercio di questi prodotti, ma non si capisce perché la politica deve offrire pseudo-ragioni scientifiche per supportare la propria obiezione agli OGM, e non possa usare invece argomentazioni politiche. È scorretto trasmettere un’immagine di pericolo all’opinione pubblica per giustificare queste scelte politiche. Forse, a livello economico, non conviene aprire agli OGM, o forse sì, però sta qui il punto del dibattito.
A fine novembre sul “Corriere della Sera” gli Accademici dei Lincei lanciavano l’allarme: il no italiano agli OGM mette in pericolo l’economia italiana.
Sì, e il primo danno è per gli agricoltori: molti, specie nel Nord Italia, dicono che coltivare OGM sarebbe un grande vantaggio per loro. D’altronde, c’è un motivo per cui alcuni Organismi Geneticamente Modificati, penso al mais bt o alla soia, hanno avuto un enorme successo a livello planetario. Non vengono attaccati dagli insetti, consentono pratiche agricole più agevoli. Impedire ai nostri agricoltori di sfruttare queste tecnologie significa metterli in una posizione di inferiorità competitiva rispetto a quelli degli altri Paesi. Il fatto che la soia è comunque necessaria per l’alimentazione del bestiame, innesta un corto circuito: in Italia non coltiviamo quella transgenica, ma alla fine la importiamo per darla ai nostri maiali. È abbastanza stupido. Preoccupanti sono poi le previsioni sul lungo periodo.
In che senso?
La ricerca sulle biotecnologie in Italia è ormai inesistente, non è più finanziata. Il nostro Paese ha ancora delle competenze residuali rimaste dall’ultimo decennio, ma nell’arco di 10-20 anni perderemo tutto e saremo totalmente inermi di fronte alle nuove tecnologie transgeniche portate avanti da altre nazioni. Non solo non saremo più in grado di proporle noi italiani, ma non saremo neanche in grado di valutare quelle che ci verranno proposte. Non si vuole comprendere che il progresso di questo settore è talmente veloce che nell’arco di uno o due decenni avremo tecnologie di modifica delle piante totalmente diverse da quelle odierne: il nostro Paese non avrà altra scelta se non adottarle. Da acquirente però, non da venditore.
Ma siamo sicuri che lo sviluppo degli OGM possa davvero ridurre i problemi di nutrizione nel mondo? In fondo, la fame è dovuta alla povertà, non alla carenza di risorse alimentari.
Nei Paesi poveri la fame dipende dal fatto che la produzione agricola non è in grado di soddisfare la richiesta interna, figuriamoci se sono in grado di acquistarne altrove. Ma se la produttività agricola degli Stati sviluppati è già al massimo, in quelli poveri c’è una potenzialità enorme, ed è qui che serve l’utilizzo di tutte le tecnologie. Gli OGM sono incidentalmente la meno costosa: è più facile ed economico sviluppare una pianta resistente agli insetti piuttosto che comprare e distribuire l’antiparassitario. Per quest’ultimo servono trattori, macchinari e competenza, per gli OGM basta sapere piantare. Il loro alto costo è legato alle procedure di registrazione: è la burocrazia a renderli onerosi. E bisogna aggiungere che la questione delle sementi è un falso problema: i semi sterili non esistono. Al massimo possiamo dire che qualunque mais coltivato in Italia è ibrido: dai suoi semi si ottiene la segregazione dei diversi caratteri presenti nella pianta, e in questo modo ciò che nascerà sarà diverso da ciò che abbiamo seminato in origine. Ma questo accade con tutti i moderni ibridi, non solo con gli OGM.
In questo modo, però, se vuole ottenere piante commerciabili, l’agricoltore è obbligato a rivolgersi all’azienda da cui ha acquistato le sementi: è la tanto contestata brevettatura dei semi.
Ma l’agricoltore è già vincolato alle aziende. I coltivatori della Pianura Padana comprano i semi dalle multinazionali americane e, se vogliono una determinata produttività, devono rimanere legati a quell’azienda. Se volessero utilizzare i semi prodotti dalla pianta non ci sarebbero problemi per le multinazionali. E per gli agricoltori? Semplicemente raccoglierebbero prodotti diversi, proprio per la segregazione dei caratteri.
Un altro punto contestato è che queste colture porterebbero alla perdita progressiva delle tipicità di casa nostra.
Sfido chiunque a dire che soia e mais sono prodotti tipici italiani. Sono specie che vengono da altri continenti (America e Asia), non vedo in che modo il mais OGM può colpire la tipicità italiana. Se andiamo invece su altre colture bisogna fare un discorso a sé. Il pomodoro San Marzano, ad esempio, non lo coltiva più nessuno perché è terribilmente suscettibile ai virus. È stato soppiantato da altre varietà non transgeniche, prodotte da multinazionali non italiane. Attualmente il pomodoro da industria non è più San Marzano. Non c’è bisogno di evocare gli OGM per ipotizzare una perdita di agrobiodiversità, che invece è insita nel concetto di agricoltura: da sempre varietà meno produttive sono sostituite con varietà più produttive.
Perché la scienza fa così fatica a comunicare con l’opinione pubblica italiana?
Perché il ricercatore, purtroppo, tende ad adottare nella comunicazione lo stesso rigore metodologico che segue nel fare ricerca. E quindi di fronte alla domanda: «Gli OGM fanno bene o fanno male?», l’attivista risponde: «Fanno male», lo scienziato inizia a fare dei distinguo, e a quel punto la comunicazione è già persa. E così il timore arriva alla gente, dove c’è un’innegabile paura di quel che si mangia: probabilmente l’uomo è arrivato fino a oggi perché ha sempre avuto paura di cibarsi di ciò che non conosceva. E mentre siamo pronti a comprare un nuovo modello di cellulare perché su queste tecnologie non abbiamo alcuna diffidenza, nei confronti del cibo abbiamo invece migliaia di anni di evoluzione che ci hanno educato a diffidare dei prodotti che non conosciamo.
L’offerta relativa a prodotti alimentari concepiti per un consumo rapido è molto più articolata di quanto la maggioranza delle persone sia, almeno ad un livello consapevole, comunemente portata a credere. Questa “ignoranza” si alimenta in parte di un allentamento dello stretto contatto che vigeva in passato tra gli individui e le realtà territoriali di appartenenza (incluso il proprio mangiare), in parte dell’onnipresenza dei grandi marchi internazionali della ristorazione veloce e della loro potenza di impressionare l’immaginario collettivo, mettendo in ombra le forme tipiche di fast food.
Nel nutrito insieme costituito da tali tradizioni possiamo certamente includere i cosiddetti cibi di strada. Con questa e con altre espressioni, come street food, mangiare o cucina di strada, ci si riferisce a quei cibi preparati e offerti quasi sul momento da piccole botteghe e bancarelle che si affacciano o sono direttamente collocate appunto nelle strade. Solitamente vengono consumati in piedi, o al massimo su sedie e sgabelli fronteggiati da una piccola superficie d’appoggio (una mensola, un bancone o, nella migliore delle ipotesi, un tavolino).
Jean-Robert Pitte descrive l’offerta delle cucine di strada in termini di singoli piatti o come un piccolo assortimento di cibi precucinati. Questi, generalmente acquistabili per somme modeste, si ritrovano praticamente in tutto il mondo e in ogni tempo, naturalmente con le relative peculiarità. L’autore definisce le cucine di strada come il principale commercio di ristorazione fin dall’antichità. Un fattore propulsivo per la loro crescita sembra essere storicamente stato lo sviluppo di mercati e fiere, eventi che obbligavano contadini e artigiani ad allontanarsi dalle loro case e di conseguenza dalle loro cucine. In situazioni del genere, uno dei bisogni fondamentali era quello di procurarsi da mangiare senza che ciò comportasse un’eccessiva perdita di tempo ai danni dei propri affari. Le caratteristiche paradigmatiche di questo mangiare indicano come ci si trovi di fronte alla prima forma di fast food.
Per un momento viene spontaneo porsi una domanda “ontologica” riguardo agli elementi che rendono assimilabile la fruizione del cibo di strada alla categoria “veloce”. Senza dubbio, la fase del consumo è generalmente rapida, pur non dimenticando l’eventualità di comportamenti divergenti rispetto alla presunta norma, come, per esempio, fruizioni lente, dettate più dal piacere di assaporare una specialità che da necessità pratiche. Al contrario, dobbiamo riflettere brevemente sul momento della produzione. Il fenomeno è così sfaccettato che risulta difficile stabilire se questa fase sia lenta piuttosto che veloce. Alcune preparazioni sono così semplici da poter essere portate quasi interamente a termine sul momento o comunque in un tempo molto contenuto. La frittura di alcune panelle (le caratteristiche frittelle palermitane di farina di ceci e prezzemolo), per esempio, non ne richiede molto. Altre preparazioni, invece, possono richiedere una maggiore cura nel confezionamento ed essere consumate velocemente in un secondo momento, riscaldate o no, a seconda della loro natura. In questo caso, l’esempio potrebbe essere fornito da una torta di verdure (intramontabile prodotto della gastronomia ligure) venduta al taglio. Qui la categoria fast non è intrinseca al mangiato, ma al mangiare, emergendo al momento della fruizione veloce. Simili differenze portano a riflettere sulla realtà sfaccettata delle cucine di strada. In relazione ai tempi e ai luoghi presi in esame, mutano le tecniche, gli strumenti e gli ingredienti alla base delle preparazioni.
Contrariamente a quanto emerge dai luoghi comuni, il modello alimentare veloce non ha avuto origine negli States, per poi diffondersi nel mondo; il fast food di stampo americano non è altro che un’articolazione (commercialmente vincente) di un modo di mangiare che nasce nelle strade ed è riscontrabile nei più disparati contesti storici e geografici. Ovviamente si tratta di una serie di fenomeni (il plurale è doveroso) che presentano un tratto differenziale di notevole importanza rispetto alla ristorazione rapida di tipo moderno: il mangiare di strada si caratterizza per la sua essenza artigianale, mentre l’offerta dei ristoranti in franchising delle grandi catene internazionali è costituita da prodotti decisamente industriali. Nonostante il crescente peso dei fast food moderni, lo street food presenta una generalizzata persistenza. La sua presenza è ancora fortemente affermata in America Latina, Medio Oriente e Africa (soprattutto nella fascia del Maghreb), luoghi nei quali l’atto del mangiare equivale spesso al ricorso a preparazioni gastronomiche di strada; rispetto a queste aree la persistenza in Europa sembra essere meno forte, ma comunque non trascurabile, soprattutto se prendiamo in considerazione i Paesi che si affacciano sul Mediterraneo. In quanto ad esempi di cibi tipici votati ad un consumo veloce, l’Italia offre l’imbarazzo della scelta, tanto nella sua storia quanto nel presente.
Le prime testimonianze certe della presenza di street food nella nostra penisola risalgono ai tempi di Roma Antica. Le strade dell’Urbe e della miriade di città sparse nell’Impero erano animate da folle di cittadini che ad una certa ora dovevano ovviare al problema della fame e della sete.
Come già affermato però le realtà del cibo di strada italiano non sono affatto circoscritte ad epoche passate.
Slow Food, per citare una dichiarazione del suo fondatore Carlo Petrini, è una vera e propria multinazionale, capace di raccogliere finanziamenti su larga scala, di concludere accordi e collaborazioni con governi e imprese di grandi dimensioni e mobilitare a proprio sostegno uomini politici e personalità del più vario orientamento. Ci troviamo, dunque, di fronte a uno strano fenomeno: da una parte, un movimento che dibatte sulla lentezza, e sul volto nobile dei contadini di una volta, che si oppone agli strumenti del miglioramento genetico (Petrini pensa ancora che i contadini si scambino i semi, e ignora l’esistenza dell’ente nazionale delle sementi elette, oppure lo dice così, tanto per scandalizzare gli agronomi e i genetisti?) e contrasta con forza l’agricoltura industriale.
D’altra parte, lo stesso movimento, si articola e si muove in ambito industriale, insomma è, in quel senso, molto fast e poco slow. Ancora, secondo Petrini «i fast food sono immorali, se ci riferiamo all’etimo latino da cui la parola morale deriva, da mores, i costumi, l’insieme delle abitudini e dei comportamenti di un popolo».
Questo però è un argomento contraddittorio: infatti se è immorale ciò che sovverte le consuetudini sociali consolidate, l’immoralità stessa viene ovviamente a cessare nel momento in cui le nuove consuetudini sono a loro volta consolidate (e a quale punto “immorali”sarebbero semmai le vecchie). Ma al di là della incoerenza, è più importante osservare che storicamente è del tutto errato attribuire alla tradizione popolare italiana abitudini che fino a tempi recentissimi sono state proprie solo di una ristretta cerchia di gente agiata: perché certo parlare di pasti abbondanti, di alimentazione sana e gustosa e di desinare in lieta compagnia, per i contadini dell’Italia non diremo preindustriale, ma anche solo anteriore alla Seconda Guerra Mondiale, è nient’altro che una fantasia assai disinvolta.
Aggiungerei solo una chiosa: il mondo muta, per fortuna. E non esistono prodotti e tradizioni immutabili. A noi piace credere nei prodotti tipici, come risultati di antichissime tradizioni. Ma sono mitologie che inventano una tradizione alimentare – e le abitudini conseguenti ̶ inesistente. Andando sul pratico, il pomodoro Pachino è un prodotto tipico, da tempo immemorabile coltivato sulla costa siciliana da bravi contadini arcaici e incorrotti, oppure è un’ottima varietà ottenuta da un incrocio ottenuto in Israele e arrivato in Sicilia negli anni Ottanta? La seconda che ho detto. E il pomodoro Pachino ha sconvolto le tradizioni locali, le usanze ecc, o ha creato nuove opportunità e dunque dobbiamo ringraziare anche i genetisti che in laboratorio hanno realizzato quella varietà? Non è che questo discorso sulle tradizioni alle fine riguarda pure i nostri migranti? Loro, arrivando in Italia, sconvolgono o non sconvolgono le usanze? Tra l’altro sono i principali consumatori di fast food o di kebab. E ci credo, costano poco. Che si fa in questi casi? Si mettono barriere? Si grida al barbaro consumista e omologato? Insomma, l’ideologia di slow food non sembra diversa dalle tante che ci circondano e che si basano tutte su un trucco: contestare la modernità e i prodotti da questa ottenuti e nello stesso tempo sfruttarne i vantaggi.
Un piccolo imbroglio concettuale che fa moda e tendenza, perché dichiarare costa poco. Cioè, per esempio, promuovere il consumo dei prodotti tipici italiani e contemporaneamente pretendere che questi vengano consumati solo localmente. La cipolla di Tropea solo a Tropea? E io che abito a Roma? Mi faccio in macchina centinaia di chilometri per mangiarla in loco? Se la montagna non va da Maometto…