I nati dalle varie tecniche di eterologa – compreso l’utero in affitto – sono figli della volontà di diventare genitori a prescindere dall’atto generativo: è un contratto fra le parti a decidere chi si assumerà la responsabilità del nato e chi invece vi rinuncerà, indipendentemente da chi ha dato il proprio contributo genetico e biologico, in nome del fatto che il figlio è di chi lo vuole e lo cresce, e la biologia non conta.
Ma la realtà è testarda, e si fa valere quando meno te l’aspetti. Agenzie di stampa hanno reso nota la pubblicazione di un vademecum da parte di alcune associazioni che hanno elaborato criteri per la donazione dei gameti nell’eterologa: il donatore non può essere scelto, e si precisa poi che «si tiene conto solo delle caratteristiche di razza dei pazienti».
Secondo gli autori del testo, quindi, gli elementi razziali delle coppie che vogliono avere un figlio sono determinanti per la scelta dei gameti estranei. Considerando che l’uso del termine razza, riferito all’umano, è già intrinsecamente sbagliato, che cosa dovrebbe succedere, seguendo la logica del testo, se una coppia di “razza” bianca chiede un donatore della sua stessa “razza”, escludendo quelli di “razza” nera, o gialla? E se una coppia volesse escludere ascendenze di “razza” ebraica del donatore, i centri di fecondazione dovrebbero forse adattarsi alla gentile richiesta?
L’espressione usata è infelice, ma molto chiara: si cercano donatori che siano simili, almeno in generale nell’aspetto fisico, alle coppie che hanno espresso la volontà di avere un bambino. Smentendo quindi subito, nei fatti, l’affermazione che la biologia non ha alcun peso: se così fosse, perché cercare qualcosa di così effimero come la somiglianza fisica con un figlio che si sa già, addirittura prima del concepimento, per scelta consapevole, essere geneticamente estraneo? Perché dare importanza alla somiglianza fisica, addirittura quasi fingendo che il figlio sia fisicamente il proprio, se quel che conta è solo l’intenzione di avere figli? Il fatto è che se quello dell’eterologa è, come è stato autorevolmente detto, il “figlio della scelta”, è una scelta che non si ferma mai solo a quella del figlio, senza caratteristiche specifiche, ma va sempre oltre, come dimostrano i cataloghi dei donatori nelle banche dei gameti laddove l’eterologa è praticata da tempo. Cataloghi completi di prezzario, naturalmente, perché ogni scelta ha un costo, ed è determinata anche dal mercato.
In Italia finora la giurisprudenza si è espressa diversamente. Oltre al divieto della selezione eugenetica dei gameti, ancora contenuto nella legge 40, la Corte di Cassazione nel giugno del 2010 ha stabilito che «l’adozione internazionale di minori non può avvenire in base a preferenze etniche», e che l’eventuale opzione per un’etnia, se espressa pubblicamente dagli aspiranti genitori, li penalizzerà nel giudizio di idoneità all’adozione. Non si può scegliere un figlio in base al colore della pelle, insomma. Ma se ora, con la fecondazione eterologa, a valere è davvero solo la volontà di diventare genitori, e non il fatto di avere procreato un figlio, chi decide dove fermare questa volontà?
C’è un’importante questione di ordine culturale: avere dei figli è un diritto?
Questo è il primo problema da porsi. La risposta che diamo a questo quesito determina il modo con cui noi pensiamo la generazione umana, il rapporto uomo-donna, la procreazione. Il desiderio non dovrebbe trasformarsi in diritto, o in pretesa, ma dovrebbe plasmarsi nell’accoglienza del figlio come un “altro” da ospitare nella propria esistenza. Per questo, penso, l’adozione resta una risposta seria e adeguata a un desiderio legittimo che non trova risposta per impedimenti puramente fisici. Ma oggi si finisce con il colpevolizzare chi non accede a questi tecniche: eppure la sterilità non è né una colpa né un fallimento, è una situazione che provoca sofferenza, ma non modifica per nulla il senso e il valore della coniugalità.
Quindi le coppie che non possono generare dovrebbero rinunciare all’ausilio della scienza e delle nuove tecnologie?
Personalmente ritengo che oggi si dovrebbe incominciare ad affermare il diritto di ogni uomo a essere generato nel grembo materno. Non si tratta di essere contrari alla tecnica, ma di domandarsi se queste tecniche non finiscano con lo stravolgere il senso della procreazione umana. Tornando alla cronaca, per curare il bambino talassemico sono stati prodotti dieci embrioni, ma solo tre sono stati scelti per l’impianto. Perché il bambino malato ha più diritto degli altri sette di vivere? Solo perché quei sette non sono visibili?
Questa sembra la risposta più immediata…
L’unico modo per riconoscere la persona umana è la sua presenza corporea e dal punto di vista scientifico l’embrione è un essere umano, cioè, in termini filosofici, una persona allo stadio embrionale. Perché non è sufficiente essere vivi e appartenere alla specie umana per essere rispettati? Occorre anche manifestare particolari qualità? Capovolgiamo la prospettiva: se una persona nasce sana e poi si ammala, non per questo cessa di essere persona umana. Allora le alternative sono due: o il diritto alla tutela è dell’uomo in quanto tale, oppure dichiariamo che solo alcuni tipi di uomini con determinate caratteristiche possono godere di questo diritto.
…come dire che il progresso scientifico porterebbe a privilegiare solo pochi prescelti?
Si sta verificando una doppia regressione, biologica e morale. Biologica, perché solo animali biologicamente poco sviluppati si riproducono in modo asessuato, pensiamo ai pesci. Grazie alla tecnica, oggi l’uomo può riprodursi senza alcuna relazione sessuale, mischiando patrimoni genetici e plasmando le prime fasi dell’esistenza dei suoi figli. L’altra è una regressione culturale: l’idea che la persona abbia valore o perché appartiene a un popolo o perché ha certe caratteristiche, fisiche e mentali, di salute, appartiene alla preistoria, per così dire, dell’umanità. Dunque l’idea della selezione non è nuova, oggi si usano solo tecniche molto più sofisticate per discriminare l’uomo.
L’etica ha storicamente un valore nella regolamentazione della vita e della società. Perché oggi è così difficile trovare parametri morali condivisibili da tutti?
Facciamo una distinzione. Dal punto di vista sociologico, da sempre esiste quello che chiamiamo il pluralismo etico. Ma questo fatto non può farci dimenticare l’esigenza di trovare delle verità morali universali, cioè verità in grado di esprimere ciò che ci accomuna come uomini. L’universalità dei criteri morali non è né l’uniformità né l’univocità delle forme della vita morale. Noi rischiamo di rinunciare a questa prospettiva chiudendoci in sorta di localismo morale, in un relativismo “morbido” che solitamente è espresso così: «per me questo è bene, ma tu fai pure quello che credi». In altri termini: non si rinuncia a dire che cosa è bene, ma si rinuncia a pensare che si possa trovare un bene che sia per noi, cioè si rinuncia a credere nell’eguaglianza sostanziale tra gli uomini. Il problema è quello di riconoscere una gerarchia di valori. Tutti parlano del bene della famiglia, dei figli, della coppia, ma non si riesce a stabilire una priorità nei beni da salvaguardare se ognuno pensa nei termini del «per me è così», senza sforzarsi di chiedersi, ma è veramente così? E l’unico modo per rispondere è l’uso della ragione, attraverso le argomentazioni.
Ma questo è il tempo dei dibattiti sugli schieramenti, chi è a favore e chi è contro…
Questo è uno dei nodi difficili del nostro tempo. Siamo sottoposti ad una sovraesposizione morale nel momento in cui ci viene chiesto di prendere posizione su fatti di cui non abbiamo esperienza diretta, né conoscenze specifiche (fecondazione assistita, trapianti, pacifismo, eutanasia, nucleare…). Non abbiamo l’opportunità di ascoltare delle argomentazioni, siamo soli, di fronte a una serie di artifici retorici che forzano i nostri giudizi.
Prendiamo per esempio la legge sulla fecondazione.
Non abbiamo potuto pacatamente prendere in considerazione, al di là degli schieramenti ideologici e delle motivazioni confessionali, l’insieme delle ragioni, a favore o contro. Alcune voci sono state totalmente assenti: abbiamo mai sentito la voce delle donne che non hanno portato a termine la gravidanza (e sono l’80% delle persone che non hanno ottenuto successo con la fecondazione in vitro)? La voce degli psicologi che hanno registrato il vissuto delle coppie e delle donne? Abbiamo mai messo in conto che, al di là degli aspetti tecnici e degli enormi guadagni, ci sono questioni culturali e sociali da considerare? Abbiamo mai messo in discussione che voler essere genitori rischia di diventare una forzatura della propria condizione quando diventa il motivo per tenere insieme la coppia, o per superare il fallimento dovuto alla sterilità, o per ovviare all’assurdo senso di colpa che la società addossa a chi non può generare? Senza dare giudizi a priori, solo dopo che si è riflettuto su tutto questo, si dovrebbe giudicare questa legge.
C’è una responsabilità sociale in questa mancanza di riflessione?
Paradossalmente siamo sommersi da dibattiti, discussioni, interviste, e via dicendo, ma siamo privati di strumenti per valutare, soffocati da un sentimentalismo che gioca tutte le sue carte sugli effetti immediati, sui colpi di scena: il tempo per pensare si è fatto troppo breve perché ogni tempo è riempito da qualcosa che ci permetta di non pensare troppo.
Qual è in questo contesto il ruolo della filosofia?
Purtroppo oggi la filosofia rischia di avere soltanto una funzione accessoria.. Nell’epoca in cui il progresso scientifico e tecnico tenta di rispondere anche alle domande esistenziali, la filosofia coltiva i suoi territori autoreferenziali, vittima anch’essa della cultura del festival, del “pensiero della domenica”, incapace di una riflessione profonda sulle condizioni cruciali dell’esistenza, sulle profonde trasformazioni della nostra esperienza. Un esempio è la fragilità odierna di fronte alla sofferenza. Si riscontra una disperazione latente nel momento della prova, perché viene a mancare la speranza. Al più attendiamo i progressi della scienza, ma non sappiamo più sperare, per questo non sappiamo essere creativi anche nelle difficoltà. La filosofia deve riflettere su se stessa e chiarire questioni vitali come questa, se non vuole auto emarginarsi compiacendosi della propria storia passata.
Jacques Testart, Ripensare il ruolo ambiguo della scienza
Bisogna stare in guardia contro la tentazione prometeica di fabbricare individui. Rispetto all’eugenismo storico, doloroso e autoritario, si estende oggi un eugenismo consensuale, nel senso che sono le stesse persone a chiedere di avere un bambino normale, eliminando presunti embrioni anormali. In Europa, il fenomeno è cominciato con la fecondazione in vitro e la scelta del donatore di gameti maschili da parte del medico. Ciò era presentato come un atto generoso, dato che la scelta era di concepire bambini non malati e simili al padre. Oggi, dappertutto, il fenomeno esplode con le banche di gameti e la selezione degli embrioni.
Oggi la fecondazione in vitro è un processo doloroso per le donne. Se le tecniche miglioreranno in futuro questo comporterà una sorta di clonazione sociale, senza passare per la clonazione in senso tecnico. Si elimineranno alcuni caratteri dell’umanità di oggi, con l’idea che i nuovi caratteri sono superiori e vantaggiosi. Ma questo è un grave rischio, perché noi facciamo gli apprendisti stregoni sebbene non sappiamo affatto dove stiamo andando. In questo contesto fabbricare individui geneticamente simili rischia di firmare la morte della specie nel volgere di due o tre secoli.
Il problema non è solo medico, ma sociale e culturale. Quando ad esempio i ginecologi chiedono di congelare gli ovociti di donne che non hanno alcun problema ma che per ragioni di carriera o altro non vogliono far bambini da giovani, è evidente che non si tratta di un problema medico. È una questione sociale. Si può per esempio imporre al datore di lavoro di non impedire l’ascesa professionale delle donne con bambini. Non spetta ai medici risolvere la situazione con simili artifici. In parallelo, è anche vero che in Francia oggi il 25 per cento delle coppie che chiedono una fecondazione in vitro non ne ha davvero bisogno. Basterebbe attendere un po’. È una logica distorta che si ammanta di visioni errate; prendiamo per esempio il caso delle donne che chiedono di congelare i propri ovociti. Si invoca una presunta disuguaglianza rispetto agli uomini, che restano teoricamente fertili durante tutta la vita. I ginecologi pretendono di compensare questa disuguaglianza con la tecnica.
Mi ritengo un laico, ma devo riconoscere che i soli che capiscono quanto dico e resistono un po’ sono i cattolici. Personalmente, ciò mi affligge. Non ho ricevuto un’educazione religiosa, ma appartengo alla cultura giudeo-cristiana, senza essere direttamente un giudeo-cristiano. E poi, constato che le grandi religioni non hanno concepito per caso certe proposte comuni per il bene dell’umanità.