Luciano De Menna, Ciò che si può fare e ciò che non si deve fare
Le incredibili scoperte dei nostri giorni della genetica e i risultati ottenuti dalle biotecnologie hanno posto ancora una volta con urgenza il problema del rapporto tra scienza, tecnica ed etica. Confesso che sono fondamentalmente pessimista riguardo alla possibilità che scienza e tecnica possano trovare al loro interno un meccanismo di autoregolamentazione. Perché se è vero, come dice Galimberti, che la tecnica «…fa tutto quello che si può fare» (e io aggiungerei «se si ha motivo di credere che qualcuno possa un giorno comprarlo») non è men vero che la scienza tendenzialmente studia tutto quello che si può studiare sempre che ci sia qualcuno disposto a finanziarla.
Del resto, sempre più, scienza e tecnica vanno oggi a braccetto e si può dire che non ci sia praticamente speculazione scientifica più astratta che non possa in breve tempo vedere una sua applicazione e, dall’altra parte, non c’è ricerca tecnologica e applicativa avanzata che possa proseguire efficacemente senza solide basi scientifiche. Tutto spinge in questa direzione: le ricerche sono finanziate in base alle loro possibili applicazioni e la speculazione pura è denigrata e svilita perché non porta a risultati immediatamente utilizzabili. La società ritiene di non aver sufficienti risorse per sostenerla. Ma scienza e tecnica non rispondono a principi di natura etica, né a limitazioni esterne d’altra natura, religiose, ideologiche ecc., salvo, naturalmente, quelle di natura economica, e sono comunque destinati al fallimento tutti i tentativi di fermarle; possono al più ritardarle e in genere solo “regionalmente”. Da un certo punto di vista tutto questo è un bene, ma da un altro punto di vista non bisogna nascondersi che è pericoloso!
A mio avviso l’unica, vera speranza sta nel fatto che sotto i panni di uno scienziato e di un tecnologo batte il cuore di un uomo, con la sua “legge morale” dentro di sé. E non parlo, naturalmente, dell’etica dei pensatori e dei filosofi, ma del comune senso morale degli uomini di ogni determinata epoca storica. La speranza sta nel livello etico generale di un popolo e dell’umanità nel suo complesso. Parlo di quel senso morale che si respira nell’aria, nella famiglia, nell’ambiente in cui si vive, nella scuola e nella formazione in generale. Nell’abitudine a “ragionare” con la propria testa in ogni occasione e nella “capacità” di ragionare, e quindi nella cultura di un popolo, anche se quest’ultima non è una garanzia sufficiente, come nel caso della Germania nazista del secolo scorso. In quello, insomma, che un matematico americano definiva «… the inalienable right to think…». L’uso dell’aggettivo “inalienabile” mi ha sempre colpito profondamente: è un diritto, e non è cedibile a nessun altro!
Alla luce di queste considerazioni, quanti errori stiamo facendo oggi in Italia, dove a una scuola primaria e secondaria ancora fondamentalmente refrattaria al pensiero scientifico, si accompagna un’università molto poco umanistica nelle discipline scientifiche e tecnologiche. E, più in generale, nella formazione della coscienza dei giovani, che sono bersagliati da poco edificanti esempi pubblici e privati e da un sistema della comunicazione che nei fatti propugna solo ideali di successo e sopraffazione nello sport, nella carriera, nello spettacolo. Come potremo stupirci se da scienziati o da tecnici questi stessi giovani non sapranno più ciò che si può fare e ciò che non si deve fare?
Val la pena citare a questo punto Leonardo da Vinci. Io me lo immagino, alla luce fioca di una candela mentre in una notte insonne inventa (o reinventa), e disegna su di un unico foglio, un sommergibile, una maschera subacquea, delle pinne e un fuoco che brucia anche sott’acqua. Siamo nel 1499, i Francesi sono scesi in Italia e Leonardo deve fuggire da Milano: la sua unica possibilità è Venezia. Come ingraziarsi la Serenissima? Ed ecco che i suoi pensieri vanno a questi strumenti utili per la guerra sui mari. Ma poi scrive nei suoi appunti: «… come e perché io non scrivo il mio modo di star sotto l’acqua, quato io posso star sanza mangiare, e questo nö publico o divulgo per le male nature delli omini li quali userebbero li assassinamenti ne’ fondi de’ mari col rompere i navilli in fondo, e sommergerli insieme colli omini che vi sono dentro…». Ma lui, si sa, era Leonardo!
Si può veramente pensare di porre dei limiti alla scienza o sarebbe più giusto dire: i limiti dell'umanità? Perché la scienza, in se stessa, come momento conoscitivo non può che essere positiva, o comunque non può avere un valenza negativa o positiva. Solo l'uomo attribuisce alla scienza una diversa valenza, a seconda dell'utilizzo che ne fa, quindi è sbagliato porre un limite alla scienza?
La ricerca scientifica è nata come un tipo di ricerca della verità, che non voleva alcun vincolo. Su questo Galileo Galilei era chiarissimo, poiché, parafrasandolo, affermava: «Un potente può dirmi dove devo costruire una casa o un ospedale o chi devo curare o meno, ma non deve pretendere di fare lui l'architetto o di fare lui il medico, se no, poveri i cittadini e poveri i malati». Questo è un tema giustissimo. Tuttavia, c'è un problema più delicato: in certi casi che prezzi siamo disposti a pagare anche per un acquisto di conoscenza? Per esempio, nel campo delle scienze del vivente, c'è una polemica, voi sapete, apertissima, che riguarda: quanto “vivente” io posso sacrificare per acquisire le mie conoscenze. La sperimentazione animale, per esempio, è un tema estremamente dibattuto. Certo, alla fine dell'Ottocento, ai tempi dei grandi, dei primi, di questi grandi biologi che hanno rifondato le scienze dal vivente, nella seconda metà del secolo scorso, la sperimentazione sugli animali era praticamente senza regole e senza alcuna legge. Oggi invece esistono movimenti che tengono ben conto di qualche "diritto degli animali". Eppure il dibattito è ancora aperto. Pensate, per esempio, al dibattito sulla vivisezione, che a me personalmente fa orrore. Ma veniamo anche a cose più vicine a noi. È abbastanza facile condannare oggi il caso degli esperimenti fatti da medici, asserviti a regimi totalitari, com’è capitato nella seconda guerra mondiale. Ci son stati esperimenti sui prigionieri, in Giappone, nella Germania di Hitler. Queste son cose ben note. Meno si sa che alcuni esperimenti sull'uomo, abbastanza cinici, sono stati compiuti anche in società libere e democratiche. Perciò il pericolo di abusi sugli altri viventi, animali o esseri umani, è un elemento che, senza dubbio accompagna la ricerca delle scienze biologiche, in generale. E teniamo ben conto che naturalmente si può sempre giustificare a scopi alti, conoscitivi: si agisce per il bene, ossia per saperne di più. Ma, intanto, chi pagherà mai quelle vittime, chi giustificherà quel tipo di dolore. È il dolore di un solo essere vivente, giustificato da un beneficio, anche enorme, per noi esseri umani, più che per il resto del vivente in questo mondo. Queste sono le domande fondamentali. Perciò, è vero, la conoscenza è bella. Ma quali prezzi la conoscenza ha, almeno in certi settori e in certi casi!
Chi pone limiti alla scienza? Non è forse, prima di tutto, necessario chiarire le finalità della scienza? E poi, in secondo luogo, volevo dare una risposta, non è poi, in fondo, la vita, l'esistenza stessa dell'uomo a porre limiti alla scienza?
Io credo che la grande scienza dei secoli passati, quella appunto di Galileo, di Newton, di Darwin, di Einstein, abbia profondamente sentito il legame tra scienza e vita e quindi anche tra scienza e filosofia, perché il filosofo dovrebbe riflettere sulla vita, non è che riflette su cose strane. È vero, Talete inciampa mentre guarda i cieli, però forse, a guardare i cieli, abbiamo mandato anche i satelliti nello spazio. Molto bene. Tuttavia l'impressione che oggi si ha, in molti casi, è di un ricercatore che, quando gli si chiede qual è il nesso tra scienza e vita, intende il nesso tra le sue ricerche e il suo stipendio, cioè una cosa un po' più ristretta, un po' più soffocata: è un “impiegato della ricerca”, non un cercatore della verità. Credo che si debba con pazienza ricominciare da qui, proprio porsi le grandi domande sul senso della propria vita e confrontarle con quello che si fa nella pratica. Certo non è facile. Ci sono però dei ricercatori scientifici, grandi fisici prima, poi grandi biologi, grandi medici, sono stati i primi a mettere in discussione la loro pratica. Magari non hanno avuto il coraggio, a un certo punto, di troncare con la ricerca, se non erano più d'accordo con quello che stavano facendo. Ecco, quindi ci vuole un grande coraggio morale, io credo. E questi sono i limiti che possono venire. Cioè l'unico limite, secondo me, può venire dal coraggio morale. Le censure, le imposizioni dall'alto, le polemiche sui media: tutto questo è polvere, insomma. Io credo invece che sia una questione di capacità di porsi dei problemi, di porsi in questione a se stessi. Ecco, da qui deve partire il discorso sull'impresa scientifica, sui suoi eventuali limiti, non certo da un'autorità politica o religiosa o economica, d'un qualche tipo, che arbitrariamente chiude la libertà di investigare il mondo della natura che ci circonda.
Per il benessere dell'umanità non è meglio in certi campi fermare la ricerca, la ricerca della verità scientifica? Mi riferisco, in particolare, alla genetica.
Sì, ci sono degli scienziati che la pensano così. C'è stato un genetista che ha rinunciato a lavorare nel campo della sperimentazione genetica. Anche queste sono scelte molto legate, io credo, alla coscienza individuale. Stiamo attenti che questo non diventi una filosofia di Stato, perché ci sono anche esempi di società che, per paura dell'innovazione scientifica e tecnologica, hanno fermato la ricerca e poi sono state sopraffatte.