Diletta Rossi, Tutti gli uomini hanno eguale diritto a vivere
Esiste un diritto alla vita? Ci si chiede: con quale diritto il nascituro esigerà che un altro lo risparmi? E si risponde che questo diritto gli deriva dal suo stesso atto di esistere: è un “diritto dipendente” dal piano ontologico e non un “diritto assoluto”, cioè il diritto di chi si pone come fonte di verità di fronte alle cose negando un loro significato intrinseco. L’individuo umano concepito, poiché esiste quale individuo sostanziale e soggetto di natura razionale, ha diritto in quanto tale a essere rispettato nella sua integrità fisica, che è per lui condizione di vitalità: è un essere umano e per questo ha il diritto che la sua vita venga rispettata.
Ci si chiede poi: esistono interessi superiori o situazioni particolari – come l’oggettiva difficoltà e sofferenza di una madre – che giustifichino la soppressione deliberata di una vita umana? Si risponde che nulla sembra eguagliare o superare quella che è la condizione, il sostrato di possibilità di ogni azione umana e di ogni atto razionale e libero. Quindi, il rispetto per la vita biologica di ogni essere umano (indipendentemente dal suo livello di sviluppo e dalle sue qualità) è la condizione di possibilità di ogni altro rispetto che gli si deve accordare. Poiché, inoltre, tutti gli uomini hanno una comune e uguale natura, devono essere accordati a tutti i medesimi diritti fondamentali, fra i quali svetta, appunto, il diritto a non essere uccisi, che viene comunemente definito ‘diritto alla vita’.
L’aborto, alla luce di quanto si è evidenziato, è una pratica omicida, e la sua legittimazione diventa anche un atto profondamente discriminatorio nei confronti di una categoria di persone umane. Mario Palmaro, docente di Bioetica presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma, a tal proposito ripropone l’analogia, istituita da Barbara e Jack Willke in Manuale sull’aborto (1978), fra due sentenze pronunciate dalla Corte Suprema degli Stati Uniti d’America rispettivamente nel 1857 e nel 1973. Entrambe, infatti, non riconoscono diritti a una determinata categoria di uomini poiché a essi viene negata la personalità giuridica. La sentenza della Dred Scott cause vs. Sandford, una causa intentata da uno schiavo nero per la sua liberazione, stabilì infatti che i neri non avevano alcun diritto o privilegio che l’uomo bianco fosse tenuto a rispettare, tranne quelli che i detentori del potere e del governo avessero voluto concedere loro. Gli schiavi, perciò, come proprietà del padrone potevano essere acquistati o venduti, usati e persino uccisi. Non è difficile riconoscere nella sentenza del caso statunitense Roe vs. Wade, che ha sancito la legalizzazione dell’aborto negli USA, la medesima cultura giuridica di fondo, discriminatoria e dominativa, secondo la quale alcuni uomini – per motivi più o meno gravi – si ritengono “padroni” di altri e vogliono decidere della loro vita e della loro morte.
Oriana Fallaci, La vita: nulla è peggiore del nulla
La vita è una tale fatica, bambino. È una guerra che si ripete ogni giorno, e i suoi momenti di gioia sono parentesi brevi che si pagano un prezzo crudele. Come faccio a sapere che non sarebbe giusto buttarti via, come faccio a intuire che non vuoi essere restituito al silenzio?
Non puoi mica parlarmi. La tua goccia di vita è soltanto un nodo di cellule appena iniziate. Forse non è nemmeno vita ma possibilità di vita. Eppure darei tanto perché tu potessi aiutarmi con un cenno, un indizio. La mia mamma sostiene che glielo detti, che per questo mi mise al mondo.
La mia mamma, vedi, non mi voleva. Ero incominciata per sbaglio, in un attimo di altrui distrazione. E perché non nascessi ogni sera scioglieva nell'acqua una medicina. Poi la beveva, piangendo. La bevve fino alla sera in cui mi mossi, dentro il suo ventre, e le tirai un calcio per dirle di non buttarmi via. Lei stava portando il bicchiere alle labbra. Subito lo allontanò e ne rovesciò il contenuto per terra. Qualche mese dopo mi rotolavo vittoriosa nel sole, e se ciò sia stato bene o male non so. Quando sono felice penso che sia stato bene, quando sono infelice penso che sia stato male. Però, anche quando sono infelice, penso che mi dispiacerebbe non essere nata perché nulla è peggiore del nulla. Io, te lo ripeto, non temo il dolore. Esso nasce con noi, cresce con noi, a esso ci si abitua come al fatto d'avere due braccia e due gambe. Io, in fondo, non temo neanche di morire: perché se uno muore vuol dire che è nato, che è uscito dal niente.
Io temo il niente, il non esserci, il dover dire di non esserci stato, sia pure per caso, sia pure per sbaglio, sia pure per l'altrui distrazione. Molte donne si chiedono: mettere al mondo un figlio, perché? Perché abbia fame, perché abbia freddo, perché venga tradito e offeso, perché muoia ammazzato alla guerra o da una malattia? E negano la speranza che la sua fame sia saziata, che il suo freddo sia scaldato, che la fedeltà e il rispetto gli siano amici, che viva a lungo per tentar di cancellare le malattie e la guerra. Forse hanno ragione loro. Ma il niente è da preferirsi al soffrire? Io perfino nelle pause in cui piango sui miei fallimenti, le mie delusioni, i miei strazi, concludo che soffrire sia da preferirsi al niente.
Nel clamore delle polemiche sull'aborto c'è un grande quasi dimenticato: Norberto Bobbio. L'8 maggio del 1981, alla vigilia del referendum sull’aborto, il maestro laico di diritto e libertà — che ha manifestato sempre il più grande rispetto e anzi interesse per la fede, che non ha mai pensato di definirsi con tracotanza ateo ma, per coerenza e appunto per rispetto, ha ritenuto doveroso rinunciare ai funerali religiosi — rilasciò un'intervista per il “Corriere della Sera”. In essa, con pacatezza e anzi con disagio («è un problema molto difficile, è il classico problema nel quale ci si trova di fronte a un conflitto di diritti e di doveri») ribadiva «il diritto fondamentale del concepito, quel diritto di nascita sul quale, secondo me, non si può transigere. È lo stesso diritto in nome del quale sono contrario alla pena di morte. Si può parlare di depenalizzazione dell'aborto, ma non si può essere moralmente indifferenti di fronte all'aborto».
Si soffermava sulla «scelta sempre dolorosa fra diritti incompatibili», ribadendo che «il primo, quello del concepito, è fondamentale», in quanto «con l'aborto si dispone di una vita altrui». Affermava la necessità di evitare il concepimento non voluto e non gradito; e concludeva: «Vorrei chiedere quale sorpresa ci può essere nel fatto che un laico consideri come valido in senso assoluto, come un imperativo categorico, il "non uccidere". E mi stupisco a mia volta che i laici lascino ai credenti il privilegio e l'onore di affermare che non si deve uccidere».
Perché, in un momento in cui si cerca non di toccare la legge 194 — cosa che dovrebbe tranquillizzare tutti, perché è essa che consente di abortire, dichiarando peraltro esplicitamente che l'interruzione della gravidanza non è un mezzo per il controllo delle nascite — bensì di creare una cultura consapevole della realtà dell'aborto, così pochi ricordano Norberto Bobbio e queste sue parole di assoluta chiarezza, molto più difficili da dire allora che non oggi? Forse perché dette in tono pacato, problematico, con l'animo di chi aborre le eccitazioni collettive e le scalmane di piazza, mentre oggi prevale chi le ama e se ne inebria, anche quando si rivolgono contro di lui, ed è felice solo nella ressa dello scontro, nel fumo della battaglia (peraltro poco pericolosa), che invece poco si addice alla ritrosia subalpina di gente come Bobbio?
Le discussioni di oggi sono altamente meritorie, perché aiutano, contro ogni pigrizia e viltà mentale, a guardare in faccia cos'è l'aborto. Visto che nessuno vuole toccare la legge 194, nessuno dovrebbe protestare contro queste discussioni, a meno che non sia un entusiasta dell'aborto. Visto che nessuno vuol toccare la legge 194, non ha senso presentare una lista elettorale che si proponga di andare al Parlamento solo per non fare leggi; per creare e diffondere una cultura dei diritti di ogni individuo, in tutte le fasi della sua vita, il luogo non è il Parlamento, bensì la società, il dibattito, l'agorà.