La felicità desiderabile
È più desiderabile una serie di momenti felici o una vita nel suo complesso felice? Ha senso la felicità di un istante se questo istante non si apre al futuro?
Se aspiriamo a una felicità duratura e permanente, se la interpretiamo come il raggiungimento di un bene "stabile" che corrisponda a una situazione di pienezza, dobbiamo prima di tutto pensare che, per raggiungere la meta, occorre mettere in conto anche privazioni, rinunce, sforzi, difficoltà da affrontare: cadere e rialzarsi, avere il coraggio di ricominciare tutte le volte che falliamo.
La felicità intesa come progetto esistenziale non esclude di dover affrontare anche elementi che percepiamo come negativi, come la paura, la sofferenza, la tristezza.
Tutte queste esperienze, che all'apparenza sembrano l'esatto contrario della felicità, acquisiscono un senso se si legano alla realizzazione complessiva di una vita ricca di valore.
La parola "esperienza", dal latino ex-periri, ha lo stesso prefisso e- di "emozione" - che indica l'uscir fuori, l'esplorare - accompagnato a un verbo che significa "provare", sia nel senso di "tentare" sia di "mettersi alla prova".
L'esperienza porta a "uscire fuori" da sé stessi e mettersi in gioco.
La felicità come esperienza
La felicità è un'esperienza nel momento in cui coinvolge il nostro "essere al mondo" in un modo attivo che impegna la nostra libertà e le nostre scelte, non attraverso un accumulo di sensazioni e immagini che ci rendono passivi.
Questo significa che il problema della felicità è legato al problema della vita e del suo significato e che esso presuppone l'impegno a rispondere a domande quali: "Chi sono io?"; "Chi voglio essere io?"; "Che cosa rende possibile realizzare la mia volontà?".
Eludere queste domande di senso sulla propria identità non è, infatti, privo di conseguenze rispetto al modo in cui vogliamo realizzarci nel corso della vita.
Affrontarle e cercare una risposta significa, invece, mettere la propria vita al riparo dall'altalena della sorte.