La Giornata Internazionale della felicità

L'importanza del diritto alla felicità ha trovato accoglienza nell'ambito dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), la cui Assemblea Generale ha istituito nel 2012 la "Giornata Internazionale della Felicità" che si celebra il 20 marzo di ogni anno.

Nella Risoluzione che ha compiuto questo gesto si legge che: «L'Assemblea generale […] consapevole che la ricerca della felicità è uno scopo fondamentale dell'umanità, […] riconoscendo la necessità di un approccio più inclusivo, equo ed equilibrato alla crescita economica che promuova lo sviluppo sostenibile, l'eradicazione della povertà, la felicità e il benessere di tutte le persone [...] invita tutti gli Stati membri, le organizzazioni del sistema delle Nazioni Unite, e altri Organismi internazionali e regionali, così come la società civile, incluse le organizzazioni non governative e i singoli individui, a celebrare la ricorrenza della Giornata Internazionale della Felicità in maniera appropriata, anche attraverso attività educative di crescita della consapevolezza pubblica […]».

Nell'occasione, il Segretario generale Ban Ki-moon ha ribadito che «Felicità è aiutare gli altri. Quando con le nostre azioni contribuiamo al Bene comune, noi stessi ci arricchiamo. È la solidarietà che promuove la felicità».

La necessità di un cambiamento

L'ONU mette in campo problemi fondamentali, come quello dell'inclusione e del superamento della povertà, che sono al centro del programma dell’Agenda 2030 (sottoscritta il 25 settembre 2015 dai governi dei 193 Paesi membri delle Nazioni Unite, e approvata dall'Assemblea Generale dell’ONU): tutte tematiche che costituiscono anche il cuore dell'insegnamento della Chiesa e che sono particolarmente centrali negli scritti e nelle parole di papa Francesco.

Chiaramente, nel mondo occidentale – proiettato verso un'economia di consumismo sfrenato, in cui il denaro sembra l'unico fine e in cui la vita frenetica prosciuga le risorse interiori – un modello di questo genere implica un radicale cambiamento dei nostri stili di vita.

Il dilagare della pandemia da Coronavirus nel 2020 ha imposto un freno alla nostra corsa, sconvolgendo il modello esistenziale della società moderna, proiettata verso un vitalismo sfrenato e con il mito dell'efficienza a ogni costo. In modo scioccante abbiamo dovuto constatare che questo modo di vivere può essere facilmente messo in crisi, ponendoci inesorabilmente di fronte alla nostra situazione di fragilità e finitudine.

Un'idea di felicità distorta dal consumismo

La necessità di rallentare imposta dalla situazione sanitaria e il trauma collettivo della crisi hanno fatto esprimere l'auspicio da parte di molti di non sprecare la dura esperienza della pandemia, ma di uscirne cambiati, propensi a coltivare valori di relazione (come la solidarietà, l'altruismo, la cooperazione), capaci di accettare la fragilità che è propria della condizione umana.

Purtroppo, l'uomo moderno ha posto come suo fine fondamentale il "risultato": in quest'ottica, la felicità sta nella produzione e nell'affermazione sociale ed economica.

Si tratta di una condizione in cui non si è mai sazi (più si produce e più si vorrebbe produrre; più si consuma, più si vorrebbe consumare) e che non è affatto fonte di benessere, bensì di continua insoddisfazione che spesso sconfina nell'angoscia di "non essere all’altezza", di "non avere abbastanza" e quindi di non avere valore, perché il valore è interpretato come qualcosa che sta "fuori" da noi e non "dentro di noi".