Ciò che è "bello" è anche "buono"

L'associazione di "bello" e "buono" è profondamente radicata nella cultura greca classica dove questo ideale era espresso con il termine kalokagathía, (unione di kalós, "bello", e agathós, "buono").

La bellezza, infatti, nella concezione greca, riguardava l'umanità nel suo insieme: era il "modo di apparire" di un "modo di essere", di pensare e comportarsi.

Un obiettivo a cui tendere

Poeti, artisti e filosofi della Grecia classica aspiravano tutti a questo ideale di bellezza e bontà, percependo che nel suo manifestarsi c'è una parte di mistero e che esso si accompagna sempre a tutto ciò che è "Bene" nel senso più ampio (per esempio, in ottica di verità e di giustizia).

Tuttavia, Platone precisava che la bellezza può coincidere con la bontà, ma solo a condizione di compiere un processo di purificazione da praticare attraverso l'ascesi (cioè "esercizio" e "applicazione") per essere davvero capaci, contemplando il bello, di apprezzare l'idea di bontà che gli è connessa.

La corrispondenza tra bellezza e bontà è piuttosto un obiettivo da perseguire e chi lo persegue apparirà bello dentro (anche se "brutto" all'apparenza, come era, per esempio, Socrate).

Il punto di vista cristiano

Anche il greco del Nuovo Testamento – ci spiega il teologo e biblista Gianfranco Ravasi – usa kalós per indicare il "buono" e il "bello": perché la trascendenza del Dio ebraico-cristiano unisce in sé, in modo unitario, verità e bellezza, bontà e giustizia.

La categoria estetica diventa, quindi, sia attraverso la tradizione classica, sia attraverso quella cristiana, la grande categoria interpretativa del concetto di "Bene".