A tavola con i Romani
Ostriche, ghiri, lingue di fenicotteri, salse prelibate, spezie talmente preziose da essere custodite nell’erario dello Stato come fossero oro.
Cambiano i gusti e le tasche si svuotano
Nell’antica Roma i gusti alimentari e le pietanze non furono sempre gli stessi: l’alimentazione cambiò nel corso dei secoli, influenzata anche dalle diverse situazioni politiche ed economiche. L’arco di tempo che va dalla fondazione di Roma al III secolo a.C. è un periodo in cui la vita era ancora molto austera. Roma era una città legata alla terra e alla pastorizia, e dei frutti di tali attività si viveva.
L’alimentazione era di conseguenza semplice e frugale: verdure ed erbe selvatiche, legumi, farinacei, olio, vino, uova e poi latte e latticini; come carne, suini e ovini, raramente qualche galletto (le galline no, perché producevano uova), completamente esclusa la carne bovina, poiché il bue era una risorsa preziosa per coltivare i campi.
Ma verso la fine della repubblica i gusti cominciarono a cambiare e molti iniziarono a spendere cifre consistenti per un buon pasto. Le navi mercantili arrivavano a Roma dal Vicino Oriente e dall’Egitto, cariche di spezie, e insieme alle materie prime iniziarono ad arrivare anche raffinati cuochi, esperti nella preparazione di complicate vivande.
Apparvero anche i primi libri di cucina, il più famoso dei quali, integralmente conservato sino a noi, è il De re coquinaria, attribuito a un ricchissimo e altrettanto goloso patrizio, Marco Gavio Apicio.
Alcuni ingredienti avevano prezzi astronomici: come il garum di buona qualità, una salsa per condire le pietanze a base di pesce, che poteva costare quanto il più caro dei profumi; o il silfio, pianta selvatica proveniente da Cirene, il cui succo dal sapore leggermente agliato, si vendeva a peso d’oro. Si pensi che nell’età di Cesare nell’erario pubblico (il luogo dove era custodito il denaro pubblico), oltre all’oro e all’argento, si conservavano anche 490 chili di silfio!
Una colazione frugale, un pranzo freddo, poi la cena in grande stile
I pasti principali erano tre. La prima colazione, che si faceva verso le otto del mattino, consisteva per lo più in un bicchiere di latte o in un biscotto inzuppato in un po’ di vino, formaggio, uova; frutti accompagnati da fette di focaccia all’olio o al miele. I bambini, andando a scuola, compravano qualche dolce o biscotto presso una delle numerose botteghe in città.
I Romani conoscevano molte varietà di frutta, ma quelle più diffuse erano le mele e i fichi. Si consumava anche molta uva e si gradivano i frutti di bosco.
A metà della giornata, prima di mezzogiorno, si consumava un pranzo leggero che di solito consisteva negli avanzi del giorno prima. Si mangiavano uova, pesce, un po’ di verdura. Si beveva acqua o vino allungato con acqua.
Il pasto forte della giornata era la cena: i poveri si accontentavano di un puré di fave o di una zuppa di verdure. I ricchi invece abbondavano nella scelta dei cibi. Nel caso poi di una festa, offrivano agli invitati banchetti particolarmente abbondanti, a cui nell’età imperiale potevano partecipare anche le donne.
I Romani, così come i Greci, usavano mangiare in apposite sale da pranzo distesi su letti, i triclinii. Accanto ai letti tricliniari, che in una sala di normali dimensioni erano tre, ognuno a tre posti, si collocava una tavola rotonda, dotata di tovaglia solo dal I secolo d.C., su cui si ponevano le vivande e un recipiente con il vino. I posti erano assegnati secondo il rango e l’importanza degli invitati. Era consuetudine che il commensale si portasse da casa un grande tovagliolo, la mappa, per raccogliere gli avanzi del banchetto e consumarli il giorno dopo.