La prospettiva ortodossa

Come per la Chiesa cattolica, anche per le Chiese ortodosse il lavoro rappresenta una vocazione divina che riflette la partecipazione dell’uomo all’opera creatrice di Dio.
Il lavoro è visto come un’opportunità per coltivarsi, servire il prossimo e contribuire al bene comune. La disoccupazione rappresenta, quindi, la privazione non solo dei mezzi di sussistenza, ma anche della possibilità di raggiungere i propri obiettivi e sentirsi parte integrante della società. La Chiesa si prende cura dei disoccupati, promuovendo la solidarietà e la carità, e incoraggia azioni concrete di aiuto, volte a facilitare il reinserimento lavorativo.
L’etica ortodossa enfatizza la dignità intrinseca di ogni forma di lavoro onesto, svolto con diligenza e responsabilità, e la riconosce negli impieghi adeguatamente remunerati e rispettosi del lavoratore. Al contempo, condanna lo sfruttamento e l’idolatria del profitto, invitando, piuttosto, a trovare un equilibrio tra lavoro e vita spirituale, entrambi essenziali per la piena realizzazione dell’essere umano.
Per quanto concerne il concetto di “sostenibilità” applicato al lavoro, la tradizione ortodossa attribuisce molta importanza alla cura del Creato e all’utilizzo responsabile delle risorse naturali, sottolineando che le comodità materiali del presente non devono compromettere le generazioni future.

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La prospettiva protestante

La visione protestante del lavoro affonda le radici nella Riforma del XVI secolo, in particolare nell’idea luterana di “vocazione” (in tedesco Beruf) e nella concezione calvinista che vede nel lavoro e nel successo professionale un segno della benedizione divina e un modo per glorificare Dio.
Successivamente, il filosofo tedesco Max Weber (1864-1920) scrisse un saggio intitolato L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, in cui identificava quest’etica calvinista come uno dei fattori chiave nello sviluppo del capitalismo.
Tuttavia, il protestantesimo contemporaneo ha messo in discussione queste interpretazioni, evolvendosi verso una critica del materialismo.
Le Chiese protestanti generalmente considerano il lavoro come servizio al prossimo e alla società, e incoraggiano i lavoratori a impegnarsi con integrità e dedizione. La disoccupazione viene vista come un problema strutturale che va affrontato con sforzi sociali e politici, non solo con risposte caritative, e che richiede l’impegno attivo dell’individuo nella ricerca del lavoro.
Particolare attenzione è rivolta ai temi legati alla giustizia sociale, come la disuguaglianza nella distribuzione delle risorse e nell’accesso alle opportunità lavorative. Le Chiese promuovono la solidarietà verso i membri più vulnerabili della popolazione.
Nel pensiero protestante cresce la consapevolezza dell’impatto che il lavoro ha sull’ambiente, per questo si incentivano pratiche di consumo responsabile e modelli di sviluppo che tengano conto delle esigenze delle generazioni future.
In generale, i princìpi morali promossi sono quelli biblici di giustizia, amore per il prossimo e cura del Creato.



La prospettiva ebraica

Nella tradizione ebraica, il lavoro possiede una dignità fondamentale, radicata nel racconto di Dio come lavoratore nella creazione del mondo, e dell’uomo, chiamato a custodire il giardino dell’Eden e, così, invitato a seguire questo esempio.
Il Talmud riconosce nel lavoro un dovere sociale e religioso, e un’occasione per santificare il nome di Dio attraverso le proprie azioni. La Halakhah (“Legge ebraica”) contiene numerose norme dettagliate che regolano i rapporti di lavoro, tutelando l’onestà e i diritti dei lavoratori, e promuovendo condizioni di lavoro eque. Il rispetto dello Shabbat (“giorno di riposo”, celebrato ogni sabato), ad esempio, è sacro per la cultura ebraica, e ricorda la necessità di dedicare tempo alla famiglia e alla propria spiritualità.
La responsabilità verso i disoccupati si traduce nel concetto di tzedakah (“giustizia-carità”), che include non solo l’elemosina, ma sostegno concreto e la creazione di possibilità di reinserimento lavorativo e sociale.
Infine, nella cultura ebraica, il concetto di “lavoro sostenibile” può essere rintracciato nel principio di bal tashchit (“non distruggere” o “sprecare”), che invita a un utilizzo responsabile delle risorse naturali e a evitare danni all'ambiente, ponendo l’attenzione sulla necessità di un equilibrio tra lo sviluppo economico e la tutela del Creato.



La prospettiva islamica

L’islam considera il lavoro come un atto di devozione ('ibadah) e un dovere religioso da svolgersi rettamente, secondo i princìpi etici del credo. I detti del Profeta Maometto esaltano la dignità del lavoro onesto, condotto con mezzi leciti (halal) che promuovono la diligenza, l’integrità, la disciplina e la responsabilità individuale e sociale.
Vengono, al contrario, scoraggiati l’ozio, la pigrizia, l’accattonaggio, ma si impone la solidarietà verso disoccupati e bisognosi attraverso la zakat (“elemosina obbligatoria”) e la sadaqah (“carità volontaria”).
L’economia islamica rifiuta lo sfruttamento e l’usura (riba), lottando, invece, per la distribuzione equa delle risorse, la sicurezza dei lavoratori e l’equilibrio tra vita professionale e vita religiosa.
Il concetto di “lavoro sostenibile” è intrinseco agli insegnamenti coranici sulla tutela dell'ambiente e sull'uso responsabile delle risorse (mizan). L’etica islamica vieta, infatti, lo spreco (israf) e incoraggia la cura del Creato e le attività svolte in modo da preservare il Pianeta per le generazioni future.
L’obiettivo finale è quello di costruire una società giusta ed equa, in cui tutti abbiano la possibilità di vivere con dignità, essere partecipi nella comunità e contribuire al benessere collettivo attraverso il lavoro.



La prospettiva induista

La concezione induista del lavoro è strettamente legata al concetto di dharma, l'ordine cosmico e sociale. Tradizionalmente, questo attribuiva specifici doveri e responsabilità a ciascuna classe sociale. Tuttavia, nelle interpretazioni moderne dell’induismo, piuttosto che alle caste (varna), il cui sistema è stato ufficialmente abolito nel 1947, si fa riferimento alle fasi di vita.
Il lavoro è visto come un modo di adempiere al proprio dharma e contribuire all’armonia della società. Secondo l’etica induista, che promuove il concetto di karma-yoga (“via dell’azione”), il lavoro va svolto con impegno e dedizione, ma senza attaccamento ai risultati. Ogni persona deve trovare il proprio bilanciamento tra quattro legittime aspirazioni, artha (“prosperità”), kama (“piacere”), dharma (“dovere”), moksha (“liberazione”), evitando di ridurre il lavoro a unico obiettivo di vita. La tradizione vedica riconosce, infatti, il valore del tempo libero per la crescita spirituale, la famiglia e la coltivazione dei propri interessi.
La disoccupazione viene interpretata come una conseguenza di squilibri sociali o karmici, ovvero disarmonie che derivano dalle azioni compiute in vite precedenti. È, quindi, importante mostrare solidarietà e compassione verso chi non trova lavoro, per sostenerlo nel percorso di ripristino di questo equilibrio.
Molti pensatori induisti contemporanei criticano il modello economico consumistico occidentale, perché promuove l’individualismo e il materialismo. Favoriscono, invece, la sostenibilità ambientale. Per l’induismo, infatti, la natura è sacra, e il rispetto dell’ambiente e l’utilizzo responsabile delle risorse sono princìpi impliciti nella dottrina.
Quest’ultima, in sintesi, intende guidare i fedeli nella realizzazione di una società in armonia con sé stessa e la natura, che permetta di attribuire un significato alla propria vita e di preservare la Terra per le generazioni future.



La prospettiva buddhista

Nel buddhismo, la prospettiva sul lavoro è profondamente influenzata dai princìpi fondamentali della compassione, della consapevolezza e del non-attaccamento alle cose materiali e alle aspettative sociali.
Il principio della compassione spinge i fedeli a cercare di alleviare la sofferenza dei disoccupati attraverso la generosità e la creazione di opportunità. La disoccupazione è, infatti, vista come una fonte di malessere, non solo per la mancanza di mezzi materiali, ma anche per la perdita di scopo e di dignità.
La consapevolezza viene esercitata attraverso la meditazione, che porta alla piena coscienza delle proprie azioni e a vivere nel momento presente, agendo con calma e saggezza nell’ambito lavorativo.
Il lavoro deve offrire opportunità di crescita, portare le persone alla collaborazione ed essere svolto giudiziosamente, senza recare danno ad altri esseri viventi, in linea con la dottrina della non-violenza (ahimṣā). In questo modo costituisce la “retta sussistenza” (sammā ājīva), uno degli Otto Nobili Sentieri Un insieme di otto principi che guidano alla condotta etica, alla disciplina mentale e alla saggezza. che conducono al Nirvana (“liberazione”), cioè alla cessazione del desiderio e dell’attaccamento.
L'approccio buddhista valorizza un'economia della moderazione, che soddisfi i bisogni essenziali senza cadere nel consumismo compulsivo, che genera insoddisfazione (dukkha). È a questo modello che il concetto di “economia buddhista” introdotto dall’economista tedesco E.F. Schumacher (1911-1977) fa riferimento.
L’idea di rendere sostenibile il lavoro si allinea con la visione dell'interdipendenza di tutti i fenomeni e della necessità di vivere in armonia con la natura. Si riconoscono, inoltre, il valore aggiunto della diversità e la necessità di far convivere all’interno dello stesso ambiente culture differenti, accogliendo ogni persona come manifestazione della forza vitale dell’universo.

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