Il tema dell’etica del lavoro è sviluppato organicamente nel testo biblico: la Genesi presenta un Dio che lavora per sei giorni e si riposa il settimo, conclusa
la sua opera (Genesi 2, 2-3), e l’uomo viene posto nel giardino dell’Eden per coltivarlo e custodirlo (Genesi 2, 15).
Il lavoro fa, quindi, parte del disegno divino e, di conseguenza, della vita dell’essere umano. In origine, simboleggiava il rapporto armonioso con il Signore,
nonché la partecipazione alla sua opera creatrice. Dopo la disobbedienza di Adamo ed Eva e la cacciata dal Paradiso terrestre, questo rapporto si incrina.
Il lavoro diventa, dunque, faticoso e fonte di sofferenza, non più segno di collaborazione feconda fra il Creatore e l’umanità
(Genesi 3, 17-23).
Antonius Heusler, Adamo ed Eva e l'albero della conoscenza, inizio XVI secolo.
Nella tradizione cristiana, è sempre stato valorizzato il lavoro onesto e sono state condannate, invece, la disonestà
(2 Tessalonicesi 3, 6-15)
e la pigrizia
(Proverbi 6, 6-11;
13, 4).
Nella Seconda lettera ai Tessalonicesi (3, 10), Paolo di Tarso (4 d.C.–67 d.C.) afferma chiaramente: «Chi non vuole lavorare,
neppure mangi». Più avanti nel tempo, i monaci benedettini hanno fatto del motto «Ora et labora» (“prega e lavora”) un principio fondamentale della loro regola,
evidenziando come il lavoro sia complementare alla preghiera.
Gesù stesso cresce in un ambiente laborioso, condividendo il mestiere del padre carpentiere, e nei suoi insegnamenti utilizza spesso delle immagini tratte
dal mondo del lavoro.
La parabola dei talenti
(Matteo 25, 14-30),
viene spesso interpretata come un invito a valorizzare i propri doni, non solo nel servizio a Cristo, ma anche
nel mondo del lavoro.
Anche la parabola degli operai “dell’ultima ora”
(Matteo 20, 1-15),
oltre a utilizzare il lavoro (e il salario) come immagine per parlare della chiamata al
servizio di Dio, può essere letta come un ulteriore insegnamento sul lavoro stesso e la sua vocazione strutturalmente solidaristica.
Oggi la dignità del lavoro è chiamata a misurarsi con nuove sfide, che interpellano anche la Chiesa. L’attuale contesto di vita, dominato dalla precarietà e
dall’agonismo estremo, genera angoscia, preoccupazione e senso di inadeguatezza. Questi stati d’animo possono trasformare il lavoro in un’ossessione e alimentare
la cultura del superlavoro.
Già nell’enciclica Laborem exercens (1981), Giovanni Paolo II poneva l’essere umano al centro di ogni cosa e attività: «Come persona, l’uomo è quindi soggetto
del lavoro». Da questo deriva la dignità del lavoro.
Purtroppo, tale dignità oggi è compromessa dalla spersonalizzazione del lavoro attraverso procedure meccaniche e ripetitive, che annullano le capacità creative
della persona; e dai rischi mortali a cui il lavoratore in molte mansioni viene esposto in nome del profitto. Un ulteriore fattore di rischio è rappresentato
dall’eccesso di lavoro, promosso dalla nostra cultura, che allontana gli individui dalla propria interiorità e dagli affetti.
Papa Francesco ha sottolineato che il lavoro non deve diventare l'unico scopo dell'esistenza, ma essere uno strumento di autonomia e libertà, che non comprometta
le relazioni con gli altri e, soprattutto, con la propria famiglia.
L’uomo deve lavorare, ma non deve essere schiavo del suo lavoro e delle sue ricchezze, né permettere che venga sottratto il tempo destinato al riposo o a Dio.
Nell’Udienza del 15 giugno 2018, il Pontefice ha dichiarato che «Rinnovare il lavoro in senso etico significa rinnovare tutta la società, bandendo la frode e
la menzogna, che avvelenano il mercato, la convivenza civile e la vita stessa delle persone, soprattutto dei più deboli».
Nel 2022, nel
Discorso al Movimento Cristiano Lavoratori,
il Santo Padre ha incoraggiato i fedeli a promuovere i princìpi di solidarietà e sussidiarietà
per affrontare le sfide del mondo moderno. Questi «correttamente coniugati, sono alla base di una società che include, non scarta nessuno e favorisce la
partecipazione». Il Papa invita, inoltre, a «tenere mente e cuore aperti ai lavoratori, soprattutto se poveri e indifesi; a dare voce a chi non ha voce;
a non preoccuparvi tanto dei vostri iscritti, ma di essere lievito nel tessuto sociale del Paese, lievito di giustizia e di solidarietà».