La discriminazione occupazionale rappresenta uno dei problemi più complessi e persistenti nel mondo del lavoro contemporaneo.
Si manifesta attraverso trattamenti differenziati basati su caratteristiche personali come genere, etnia, nazionalità, religione,
orientamento sessuale, età o disabilità. Tale fenomeno non solo viola i diritti fondamentali della persona, ma produce anche
conseguenze negative sul piano economico e sociale, limitando il potenziale di crescita individuale e collettivo.
Nel contesto globale attuale, nonostante i progressi normativi e culturali, numerose forme di discriminazione ostacolano l'accesso
equo alle opportunità lavorative e lo sviluppo professionale di categorie specifiche di lavoratori. La lotta contro queste disparità
richiede un approccio multidimensionale che coinvolga istituzioni, imprese e società civile.
A livello internazionale, numerose convenzioni dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) stabiliscono standard minimi
per contrastare le varie forme di discriminazione. L'Unione Europea (UE) ha, inoltre, sviluppato un quadro normativo articolato,
con direttive specifiche contro gli atti discriminatori di ogni tipo.
La Costituzione italiana difende il principio di uguaglianza e tutela con normative specifiche le pari opportunità tra uomo e
donna (Legge 198/2006), l’inclusione delle persone con disabilità (Legge 104/1992) e, in generale, la parità di trattamento in
materia di occupazione e condizioni di lavoro (Decreto legislativo 216/2003).
Al momento questi provvedimenti non sembrano essere molto efficaci, forse perché, oltre a prevedere divieti e sanzioni per i
comportamenti discriminatori, mancano di proporre degli incentivi positivi per l'inclusione, come sgravi fiscali per le aziende
che adottano politiche di diversità, sostegno all'imprenditorialità femminile e giovanile, e programmi di formazione professionale
mirati alle categorie svantaggiate.
Nonostante i significativi progressi compiuti negli ultimi decenni, le donne affrontano ancora oggi numerosi ostacoli
nella loro realizzazione professionale. Come evidenziato dall'episodio dello
sciopero delle donne islandesi
dell'ottobre 2023, le questioni legate alla
parità salariale
e alla violenza di genere rimangono irrisolte e riguardano anche le società considerate più progressiste.
Nelle società occidentali, le donne continuano a guadagnare in media meno degli uomini per lo stesso lavoro, a
incontrare maggiori difficoltà nell'accesso a posizioni dirigenziali (fenomeno definito “soffitto di cristallo”)
e a essere sottorappresentate nei settori tecnico-scientifici. Queste disparità si accentuano ulteriormente se
intersecate con altri fattori di discriminazione, come l'etnia o la condizione socioeconomica.
Un aspetto cruciale di questo scenario riguarda la difficoltà di conciliare l'occupazione con la maternità.
In molti contesti lavorativi, la gravidanza e la maternità vengono ancora percepite come un problema, anziché
come una fase naturale della vita che richiede adeguati supporti, perché risulta complesso ed economicamente
gravoso per le aziende gestire le prolungate e/o ripetute assenze delle lavoratrici. Così, la mancanza di
adeguate politiche di sostegno alla genitorialità, di congedi parentali equilibrati tra i generi, di servizi
per l'infanzia accessibili e di flessibilità lavorativa, accentuano queste problematiche. Spesso, quando
non vengono opportunamente licenziate, al rientro dopo la maternità, le donne si trovano costrette ad accettare
ruoli di minore responsabilità e retribuzione.
Inoltre, secondo numerosi studi, anche nelle coppie in cui entrambi i partner lavorano a tempo pieno,
in Italia continua a essere la donna a dedicare significativamente più tempo alle attività domestiche e alla cura
dei figli o di altri familiari, trovandosi così con prospettive lavorative ulteriormente limitate.
Un’altra problematica rilevante è rappresentata dalle
molestie a sfondo sessuale
che molte donne subiscono negli ambienti di lavoro, spaziando da sguardi inopportuni alla vera e propria aggressione, non di rado
come forma di ricatto per ottenere avanzamenti retributivi o di carriera.
APPROFONDISCI
Da diversi anni, il fenomeno delle migrazioni si presenta come una delle questioni più complesse e dibattute a livello globale.
Milioni di persone si spostano dalle aree più povere del Pianeta verso i Paesi economicamente più avanzati, nel tentativo di trovare
migliori opportunità lavorative e di vita, oppure fuggono da guerra e persecuzioni, alla ricerca di protezione e asilo politico.
Questo movimento migratorio, se gestito adeguatamente, può rappresentare un'opportunità di arricchimento reciproco, sia sul piano
economico che culturale.
Tuttavia, i lavoratori migranti si trovano spesso in una posizione di particolare vulnerabilità, esposti a varie forme di
discriminazione e sfruttamento. Frequentemente sono impiegati in settori caratterizzati da lavori faticosi, pericolosi e
poco gratificanti, che i lavoratori locali tendono a evitare, e, anche quando possiedono elevati livelli di istruzione e competenze,
devono affrontare numerosi ostacoli nell'accesso a impieghi qualificati, a causa delle barriere linguistiche e delle difficoltà
legate ai pregiudizi e al riconoscimento dei titoli di studio.
La retorica che presenta i lavoratori stranieri come “concorrenti” che “rubano il lavoro” ai lavoratori locali non trova riscontro
nella realtà economica: in molti casi la manodopera migrante si inserisce in contesti caratterizzati da carenza di forza lavoro locale
e contribuisce in modo significativo all'economia dei Paesi di accoglienza, sia attraverso il lavoro svolto sia tramite il pagamento
di tasse e contributi.
In generale, le persone appartenenti a minoranze etniche, anche se nate e cresciute nei Paesi occidentali, sono spesso vittime
di segregazione occupazionale e di varie forme di violenza attiva e passiva all’interno degli ambienti di lavoro. Inoltre,
come le donne, tendono a essere peggio retribuite.
Numerosi studi hanno, per esempio, dimostrato l'esistenza di pregiudizi, consci o inconsci, nei processi di selezione del personale:
candidati con nomi riconducibili a minoranze etniche ricevono meno convocazioni per colloqui rispetto a candidati con qualifiche
simili, ma nomi tradizionali. Questo fenomeno, noto come “discriminazione statistica”, si basa su stereotipi e generalizzazioni
riguardanti determinati gruppi sociali.
Le conseguenze di questa forma di discriminazione sono particolarmente gravi: non solo limita le opportunità di autorealizzazione
degli individui colpiti, ma rappresenta anche uno spreco di talenti e competenze per l'intera società, riducendo l'efficienza
economica complessiva.
Le persone con disabilità costituiscono un’altra categoria sociale la cui inclusione nel mondo del lavoro è fortemente ostacolata.
Le difficoltà a cui vanno incontro possono essere di natura fisica, come la mancanza di accessibilità degli ambienti di lavoro, e di natura socioculturale,
legate a pregiudizi e stereotipi sulla loro produttività e sulle capacità cognitive.
Ad esempio, è comune ritenere poco intelligente o addirittura incapace di intendere e di volere una persona sorda o afflitta da qualche altro tipo di
impedimento fisico.
Anche in questo caso la discriminazione si manifesta in vari modi: difficoltà nel processo di assunzione, limitazioni nelle opportunità di formazione
e sviluppo professionale, differenze retributive rispetto ai colleghi senza disabilità. Queste disparità risultano ancora più accentuate quando
si appartiene contemporaneamente a un’altra minoranza sociale, come l’essere donna o appartenere a un’etnia non caucasica.
Poiché il lavoro non rappresenta solo una fonte di reddito personale, ma anche un'importante occasione di partecipazione attiva alla società e di
sviluppo delle proprie potenzialità, l'esclusione dal mondo del lavoro delle persone con disabilità ha conseguenze gravi sia sul piano economico,
sia su quelli dell'autonomia personale e dell'inclusione sociale.
In Italia, la
Legge 104
(Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate) rappresenta il principale
strumento normativo per la tutela dei diritti di queste persone, incluso il diritto al lavoro. Questa norma, innovativa per l'epoca della sua approvazione,
ha segnato un importante passaggio culturale, ponendo l'accento non solo sull'assistenza, ma anche sull'integrazione e sulla piena partecipazione
di questi individui alla vita sociale.
Nonostante questo strumento legislativo, permangono ancora significative difficoltà nell'effettiva inclusione lavorativa delle persone
con disabilità. Molte aziende vedono l'assunzione di questi lavoratori come un mero adempimento normativo, piuttosto che come un'opportunità di
valorizzare capacità diverse. Sono, inoltre, rilevanti le disparità territoriali nell'implementazione delle politiche di inclusione lavorativa,
con situazioni particolarmente critiche nelle aree economicamente più svantaggiate.